Quando l'Europa si fermava a Napoli

di Micol Bruni
Per Auguste Creuzè de Lesser (Parigi, 1771 – 1839) nel suo Viaggio in Italia e Sicilia risalente al 1806, pubblicato a Parigi da Didot, l’Europa finiva a Napoli. Si tratta di un viaggio che Creuzè de Lesser effettuò in Italia tra 1801 e il 1802. È una osservazione che ancora oggi fa riflettere perché se l’Europa per i viaggiatori stranieri si fermava a Napoli tutte le altre regioni come venivano considerate? Lo stesso autore del testo citato, infatti, lo dice con molta singolarità quando afferma che “L’Europa finisce a Napoli, e anche assai male. La Calabria, la Sicilia, tutto il resto appartiene all’Africa” (cfr. Maurice Maeterlinck, Promenade en Sicile et Calabre, edizione 1997, Il Coscile, pagg. 7 – 8) .
Ed è naturale che questa chiosa ci spinge ad una visione geografica ed antropologica dell’Italia ma se si vano ad analizzare i tessuti territoriali ci si rende conto come sia la geografia che l’antropologia rispecchiano una dimensione di natura prettamente etno – linguistica. Quell’Europa che finisce a Napoli segna lo spartiacque con il Mediterraneo il che vuol dire, che il Mediterraneo comincia proprio da Napoli. Ed è quel Mediterraneo delle lingue, certamente, ma anche delle culture grecaniche, arabe, balcaniche e degli incontri e scontri tra riti e fenomeni religiosi. Da Napoli in giù si respira, anche a sentire Maurice Maeterlinck (Gand, 1862 – Orlamonde, Nizza, 1949) nel suo Promenade en Sicile et Calabre risalente al 1924, l’atmosfera che è stata la realtà della Magna Grecia.
Una cultura chiaramente greca ma anche con delle ramificazioni in quelle koinè illiriche che rimandano alla storia albanese. Questo è un dato fondamentale perché come più volte sostenuto le cosiddette colonie albanesi e la tradizione grecanica si intrecciano tanto che la loro presenza ha dato vita ad un ethnos con il quale la storia d’Italia non solo dal punto di vista linguistico ha dovuto fare i conti.
La presenza degli albanesi nel regno di Napoli conferma sostanzialmente quello che sosteneva Creuzè de Lesser perché nel territorio del Regno di Napoli, già geografia fisica e politica della Magna Grecia, le lingue si son dovute sempre confrontare con i modelli di civiltà e quindi con i rapporti di dominazione che hanno permeato tutto il tessuto territoriale.
Il Regno di Napoli in una chiave di lettura antropologica si è trovato a raccordare con la presenza dei popoli balcanici provenienti dall’Adriatico, con la vicinanza del Mediterraneo greco e con l’affaccio ai paesi del Mediterraneo nord africano. Ed è naturale che i viaggiatori soprattutto quelli stranieri giungendo sia nell’area più vasta delle regioni meridionali sia nelle comunità etno – linguistiche con eredità ed appartenenza proveniente da altra realtà storico e geografico ha dovuto puntualizzare la diversità che ha riscontrato.
Anche quella antropologica è una diversità di fondo caratterizzante nel dialogo con le popolazioni e con l’impatto sia urbanistico sia comunitario.
Da parte dei viaggiatori, sia stranieri sia viaggiatori provenienti dal nord Italia, ci sono chiavi di lettura abbastanza articolate che vanno da modelli di comprensione a letture comparate. In molte occasioni non si riesce a fare un distinguo tra la presenza albanese e quella grecanica ma ci sono degli spaccati che offrono una forte tensione che si focalizza sulla descrizione del paesaggio.
Se Meterlinck (op. cit., pag.8) dice: “Fino a Napoli il viaggio è piacevole e il comfort quasi perfetto…a partire da Napoli, e soprattutto in Sicilia, si incontrano gli inconvenienti…”, Maria Brandon – Albini (scrittrice italiana del Novecento) nel suo reportage dedicato alla Calabria risalente al 1957 ci offre questo affresco: “Con il crepuscolo, i paesi albanesi cominciano a brillare nel grembo ricoperto di muschio di un immenso presepe: San Basile, Acquaformosa, San Giorgio, Frascineto, lungo i contrafforti del Pollino; dal alto del mare Tirreno, San Benedetto e altri ancora; a destra del Crati, il prete mostra col dito il profilo brumoso della Sila greca dove si nascondono San Cosmo, San Demetrio Corone, Santa Sofia D’Epiro…” (Calabria, edizione 2008, Rubbettino, pag. 141).
Intorno a queste definizioni o rappresentazioni ci sono i costumi, le tradizioni, la lingua. E per gli albanesi o italo albanesi la lingua è il tutto che interagisce però con quel mondo bizantino al quale delegano la loro appartenenza le culture e le comunità greche. Lungo queste traiettorie il Mediterraneo ancora una volta è una presenza costante perché non solo interagisce ma assolutezza un processo che non è soltanto storico ma profondamente metafisico.
La storia più recente di queste comunità in questo lembo di Mediterraneo resta naturalmente quella della venuta degli albanesi. I viaggiatori che si sono spinti nel di dentro di queste comunità non hanno recuperato soltanto le forme etniche e non hanno cercato semplicemente di capire il suono della lingua ma si sono addentrati nel tentativo della comprensione di una storia che, comunque, resta ben intrecciata con il territorio.
Cesare Lombroso (Verona, 1835 – Torino, 1909) nel suo testo dal titolo In Calabria 1862 – 1897 sottolineando l’importanza della storicità degli albanesi ci offre una pagina di straordinario impatto sistematico: “La venuta degli Albanesi in Italia rimonta al 1462, quando Ferrante d’Aragona assediato in Barletta, e più le insistenze di Pio II (Enea Silvio Piccolonimi) chiamarono in aiuto contro Giovanni d’Angiò, Giorgio Castrista o Scanderbeg. Questi scese alle spiagge di puglia; ed i francesi al solo suo appressarsi sciolsero l’assedio e riportata la peggio in una battaglia ritornarono oltre Alpi. Scanderbeg ebbe in guiderdone la città di Trani, il monte Gargano col santuario di S. Michele, Manfredonia, ed il castello di S.Giovanni Rotondo. Ma dopo la sua morte avvenuta in Lissa nel 17 gennaio 1467 il Sultano s’impossessò della tanto ambita Albania; ed il figlio di Scanderbeg, Giovanni, poco degno, per valore, del padre, comunque protetto dalla Repubblica Veneta non sapendo resistere alla potenza ottomana espatriava, rifugiatasi nelle amiche terre napilitane insieme a molte famiglie albanesi, mentre latre toccarono i veneti dominii continentali. Il re Aragonese memore dei benefici ricevuti dal padre del fuggitivo principe l’accolse, e gli concesse il comando di S.Pietro di Galatina, ed arruolò la gioventù in reggimento; altri li raggiunsero cui il Re (per tenerli lungi dai grandi centri), sparse sul Gargano, ad Otranto e Melfi donde per dissensi insorti emigrarono in Basilicata: gli ultimi profughi in Sicilia e in Calabria vi edificarono 32 villaggi protetti da una pronipote di Scanderbeg sposatesi con un Sanseverini. Gli Albanesi, emigrati tutti in un’epoca istessa, conservarono ben più gelosamente le avite tradizioni, né so come si abbia potuto confonderli coi Greci, con cui non ebbero comunque che le lunghe sventure, l’origine Aria, e l’amore per la letteratura d’Ellenia, da cui, però, il loro linguaggio forse più differisce che dallo slavo e dal tedesco” (Cesare Lombroso, In Calabria, Rubbettino, 2009, pagg. 35-36).
Si tratta di una testimonianza di estremo interesse perché in un semplice spaccato Cesare Lombroso sfaccetta la presenza degli Albanesi nel Regno di Napoli ma parimenti tenta un confronto con la diversità dei Greci che sono, nonostante tutto, ben stanziati quasi nello stesso territorio.
Per i viaggiatori stranieri trovarsi a contatto con popoli che sono portatori di una formazione greca, turca o araba ha avuto una duplicità di significato che tocca modelli di conoscenza di un territorio che è stato attraversato da antiche civiltà e che le loro tracce non sono soltanto nei beni culturali come elemento simbolico ma anche nel comportamento delle popolazioni e ciò che emerge vistosamente è il fatto che questo tessuto territoriale, come più volte ha sostenuto George Gissing (Wakefield, 22 novembre 1857 – 28 dicembre 1903), ha una profonda matrice mediterranea.
Quindi viaggiare per luoghi e tra i luoghi nelle comunità albanesi e grecaniche per i viaggiatori stranieri, ha significato comprendere e capire una Europa che si fermava a Napoli. Proprio George Gissing (cfr. Daniele Cristofaro, George Gissing. Il viaggio desiderato (Calabria 1897), Pellegrini Editore, 2005 ; cfr. Alessandra Della Fonte, Bytheionian Sea: storia di un inglese che cercava l’antico e trovò le stelle, Il Coscile, 2008) che individua il suo viaggio tra le terre della Magna Grecia come un viaggio nell’Europa mediterranea.
Credo che partendo proprio d a questa affermazione è possibile penetrare un tessuto che non è soltanto realtà geografica ma presenza esistenziale. In fondo le comunità che si rappresentano con una loro etnia ben definita rispetto a quella nella quale risiedono si sottolineano in una fedeltà che è quella, certamente, linguistica ma chiarificante in quella etno antropologica.
Il che vuol dire che lingua e forme antropologiche costituiscono la chiave di lettura per penetrare una civiltà che è riuscita ad integrarsi in una cultura che già di per sé aveva un suo radicamento in una identità ben definita dal punto di vista della struttura geo - politica.
I viaggiatori stranieri a volte hanno compreso ciò catturandone gli elementi e i sistemi ereditari altre volte sono rimasti disorientati. Ma resta il fatto che quella Magna Grecia che entra dentro il Regno di Napoli, ancora oggi, ha un suo portato, indubbiamente, storico la cui illustrazione si definisce, comunque, nei vari modelli antropologici che hanno antichi richiami.

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