Diari da Kinshasa / Valigie chiuse, cuore aperto


di Elena de Gironimo. Valigie chiuse. Valigie pronte, si parte. Le ho controllate mille volte, non manca niente. Sono strapiene. So già che al mio ritorno molte cose non saranno state mai usate. Che fa? Sempre, quando si parte, veniamo presi dall’ansia, da una strana eccitazione mista ad inquietudine.
Pregusto già il mio ritorno, i racconti che dovrò fare, le immagini che dovrò memorizzare.

Africa, ecco il mio primo viaggio intercontinentale! Ho sognato l’Africa tante volte, vedendo i documentari su leoni e zebre. L’Africa bellissima e misteriosa. Quante volte ho pensato come sarebbe stato bello vivere lì. Le valigie sono chiuse e rischiano di scoppiare. Manca poco alla partenza, solo alcuni minuti. Ci siamo. Sistemo i bagagli, spengo la luce, mi siedo sul divano, chiudo gli occhi e… continuo il mio viaggio con la mente, con le valigie piene di immagini del mondo che vedrò e di quello che ho vissuto.

Diamine, quanto è grande l’aereo. Ho la mente in subbuglio. I pensieri si affollano senza avere un senso, la mente accarezza mille emozioni. Io, che vado in Africa! Mi scappa un sorriso. E poi, vado a prendere mia figlia, un tuffo al cuore. Non so se mi sono assopita o se semplicemente ho continuato a fantasticare con la mente... Atterro. Che caldo! Strano ma non riusciamo mai ad immaginare il caldo quando è autunno, e la vista dell’acqua ci fa venire un brivido lungo la schiena. Fa caldissimo, tanto che mi sento mancare. È il 20 novembre. Il mio viaggio nello spazio è divenuto un viaggio nel tempo.

Precipito in un mondo mai descritto realmente, mai filmato, mai testimoniato; un mondo non razionale, fatto di strade caotiche e sporche, di respiro faticoso nell’aria umida e polverosa. Proseguo. Mi offende la violenza di quel mondo, violenza che in quel mondo è quotidiano. Mi manca un giubbino e le scarpe sono fuori moda – vengo da un mondo in cui conta sapersi vestire, ma viaggio in un mondo senza né acqua né pane. Conosci il proverbio: ogni giorno una gazzella si sveglia e sa di dover correre per non essere uccisa; c’è di più: ogni giorno un bimbo figlio della stessa terra si sveglia ed affronta la strada, per una guerra che non ha dichiarato; per non morire.

Kinshasa è una città devastata senza leoni né zebre, violentata e violenta. E mentre cammino per quelle strade, percorro un tragitto che porta dentro di me. E mi vergogno e ho paura. E faccio istintivi paragoni, fra qui e là, fra Kinshasa e la Puglia, l’Italia, l’Occidente. Qui e là. Domani bisogna uscire e fare la spesa. Il figlio piange e cade in crisi se non ha lo scooter. Quel bimbo davvero piccino scava nel cumulo di spazzatura, ha fame. Viaggio tra piante e fiori stupendi, in un verde incredibile, in mezzo a musica e colore. E mentre avanzo, pian piano, svuoto le valige della coscienza, mi inoltro in luoghi mai visitati prima.

Viaggio, ma non mi sento affatto migliore; ma il dolore mi ferisce e si fa più profondo, più vero; e mi chiedo perché ci siamo convinti che la nostra sofferenza sarebbe così speciale, perché l’unico pianto da consolare sarebbe il nostro. Attraverso gli slum che qualcuno ha chiamato città, per convenzione e ignoranza. La piazza degli artisti mi rapisce tra baracche e quadri, monili, maschere… mi incanto. Vorrei comprare tutto, portare via con me l’incanto di quel luogo, così pieno di turisti pronti a farsi imbrogliare felici. Mentre la mente vola, ecco dei bimbi che provano a rubarmi la borsa: sono sporchi, smagriti, con occhi così scuri e luminosi, così grandi che rischieresti di affogarci dentro. Non ho più paura, ma infinita pietà. Vorrei abbracciarli, coccolarli. Qualcuno li scaccia e loro, come passeri improvvisamente ritrovatisi in uno specchio d’acqua, ora volano via.

Continuo a camminare – forse a sognare – tra bimbi puliti che avranno un anno o poco più, vegliati e vezzeggiati, cuccioli protetti e accuditi con amore; ora viaggio – forse desta – tra scriccioli della stessa età, capaci però di correre, di frugare e di sopravvivere in questa città caotica che non vede, cieca di fame e di dolore, e mi sento impotente. In questo mio stranissimo viaggio due mondi si scambiano continuamente, si mescolano ambiguamente, fra sogno e realtà. Anche lì c’è un padre e il suo piccolo, miserelli, che l’ipocrisia appagata talvolta salva con un euro – sai come si dice: e lavi la coscienza. Eppure lì si è capaci di coccolare i figli, di proteggere e viziare; qui c’è un padre, violento affamato che non vede i suoi figli, non protegge ma sa danzare e vincere in guerra.

Viaggio. E mi accorgo che anche io fra i due mondi, adesso ho alla mano la mia piccola. Come è bella la mia bimba quando ride. Ha messo le mutandine che prima nemmeno conosceva, senza perdere l’innocenza. Ride e ci fa ridere senza un perché. Alza il vestitino leggero e pulito, mostra con candore la biancheria. Peccato non far vedere quel dono, non sa a che serve ma ne è felice. Corre col vestitino alzato e fa smorfie e chiacchiera nella lingua della sua terra. I proseguo con lei il mio viaggio. E so che non è un sogno. Nella strada dell’inferno senza legge né cuore, tra bimbi già vecchi ed infelici, ed io infelice con loro, viaggio e vorrei tornare, forse sfuggire a quella terra senza sogni e speranze. Anzi, no. Voglio tornare, non più fuggire. Avere il coraggio della memoria e lottare. E allora si torna.

Il torpore è finito. Accendo la luce e guardo le tante valige non aperte, le più belle, le più nuove, quelle dei buoni propositi, dei sogni, delle favole in cui il principe sposa la povera e bella. Il mio viaggio nel cuore per ora è concluso. Ripongo i ricordi e le mie fantasie, come si ripongono i libri in uno scaffale. Lascio chiuse le valigie per quel giorno pieno di coraggio in cui si apriranno.

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