Festival di Venezia, premiata la critica alla modernità

Dal nostro inviato Francesco Greco
(GUARDA VIDEO) – Ha vinto la critica alla realtà, alla modernità, le sue infinite contraddizioni, le asprezze, i deliri, le patologie. La formazione culturale e politica del presidente della giuria, il regista Bernardo Bertolucci (“Novecento”, “L’ultimo imperatore”) deve essere stata decisiva nell’assegnazione dei premi.

   L’Italia interrompe così il trend negativo degli ultimi anni (a mani vuote da Berlino, Cannes, Locarno, oltre che dagli Oscar) e porta a casa tre premi che inaugurano una sorta di “nouvelle vague“ proprio nel momento in cui la politica decide di rifinanziare i Fus (Fondo unico dello spettacolo), prosciugati da Berlusconi.

   Il primo, curiosamente, a un documentario (genere ammesso per la prima volta in concorso). Leone d’oro a “Sacro Gra”, di Gianfranco Rosi, che intercetta sette personaggi ai margini di Roma raccontando le loro storie, la quotidianità, rabbie, paure, rassegnazioni. Shooting intenso, lieve, felliniano. “Il verdetto è stato unanime – sorride Bertolucci stanco ma soddisfatto del lavoro – abbiamo premiato un film sorprendente, direi francescano…”.

   Erano 15 anni (ultimo Gianni Amelio con “Così ridevamo”, 1998) che il riconoscimento non andava a un regista italiano: “Non me lo aspettavo – afferma confuso Rosi – lo dedico ai personaggi del film che mi hanno permesso di scavare nelle loro esistenze…”.

   Il secondo (Coppa Volpi per la migliore recitazione) a un’attrice 82enne, Elena Cotta, protagonista del secondo film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”, dell’esordiente Emma Dante (attrice e regista provengono dalla dura scuola del teatro).

   Se il format adottato è questo, cioè la denuncia degli aspetti violenti, i nodi gordiani del XXI secolo, ci si chiede perché tener fuori il terzo, il bellissimo, poetico “L’intrepido”, di Gianni Amelio, con un superbo Antonio Albanese. Ma anche “Lech Walesa” (L’uomo della speranza), del maestro Andrzej Wajda meritava di più, inclusa Maria Rosaria Omaggio nei panni ispidi di Oriana Fallaci che intervista il leader operaio polacco.

   Da condividere, invece il Leone d’argento a “Miss Violence”, del regista greco Alexandros Avranas (che fu accolto tiepidamente), metafora della Grecia del default, dove la coscienza atomizzata dell’Europa, la sua memoria lacerata, le radici culturali recise, la povertà stratificata provocano l’orrore (un nonno orco sospeso fra pedofilia, incesto e violenza: peraltro la storia è vera). Coppa Volpi come migliore attore all’interprete Themis Panou.

   Gran premio della giuria a “Jiaoyou” (Stray Dogs), bellissima favola di Tsai Ming-Liang (Taiwan). Altro premio speciale della giuria a “Die Frau das Poliziesten” (La moglie del poliziotto), storia di un femminicidio, giusto per tenere il cinema agganciato alla cronaca, di Philip Gronig.

   “Philomena”, con una deliziosa Judy Dench, dell’inglese Stephen Frears, regista-cult inglese premiato per la migliore sceneggiatura (frimata da Steve Coogan e Jeff Pope) e col leone d’oro della critica italiana. A Jyi Sheridan il premio “Mastroianni” come migliore attore per “Joe”, di David Gordon Lee e “Nuovi Orizzonti” a Uberto Pasolini (romano, è anche produttore, vive a Londra) per il poetico”Still Life”, storia di morti che reclamano dignità.

   Tutto sommato Venezia 70 ha proposto opere di qualità, nonostante sia mancato il capolavoro che fa fare “ohhhh!”. Con uno sguardo al passato (opere restaurate e altre, tipo “Che strano chiamarsi Federico”), sospeso in un delicato “come eravamo”, e uno al futuro, ha evidenziato il delirio in cui viviamo, l’urgenza di fermarsi e riflettere prima che le nostre stesse contraddizioni ci tirino giù nei gorghi limacciosi di una contemporaneità sempre più brutale e meno decifrabile.

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