Il colera a Bari, storia e curiosità

di Vittorio Polito - Il colera si diffonde a causa di precarie condizioni igieniche e sanitarie, come le periferie urbane, i paesi in via di sviluppo, i campi dei rifugiati o dei nomadi, o per l’assenza di sistemi fognari efficienti o la contaminazione delle acque. In Italia si sono verificate nel tempo varie manifestazioni, alcune anche di eccezionale gravità, come quella dell’estate del 1836, in occasione della quale si contarono ben 1290 casi e 238 decessi nel giro di soli 4 mesi. Nel giugno 1837 il vibrione colerico riprese alla grande causando in sei mesi circa, 854 infezioni e 138 nuovi decessi, su una popolazione di soli 26 mila abitanti. La questione preoccupò non poco gli amministratori che decisero «di provvedere intorno ai mezzi come accorrere in aiuto dei poveri infermi, e ciò per umanità, e perché la malattia dominante venisse debellata al più presto». Quindi si dovettero reperire i fondi necessari e, data la scarsezza di disponibilità, si decise di utilizzare somme stanziate in precedenza per soccorrere i poveri in caso di nevicate, nonché quelle per la costruzione di un faro, di una chiesa e di un giardino pubblico. Furono così acquistati, ricorda Vito Antonio Melchiorre nel suo libro “Storie di Bari” (Adda Editore), letti, biancheria, vitto, e ingaggiati 24 spazzini per pulire bene le strade e per evitare “maligne influenze atmosferiche tanto nocive alla pubblica salute”. Il materiale fu a sua volta ripartito fra le 7 parrocchie della città i cui parroci presiedevano comitati composti anche da uomini probi e caritatevoli. Al sindaco fu affidato dal decurionato il coordinamento di tutti i servizi con facoltà di adottare qualsiasi provvedimento avesse ritenuto necessario.

Nell’estate del 1873 una nuova infezione colerica interessò il Mezzogiorno d’Italia minacciando anche Bari ed il prefetto pro-tempore nominò una Commissione di 8 membri, presieduta dal dottor Beniamino Scavo, che doveva accertare le condizioni igieniche e sanitarie della città, ricorda sempre Melchiorre nel libro “Storie Baresi” (Levante Editori). I risultati? «Nei mercati furono riscontrati luridume e infrazioni d’ogni genere, così come nei privati esercizi ove le mancanze erano davvero infinite: le osterie risultarono vendere vini sofisticati da acqua, carbonati alcalini o calcarei, sostanze coloranti artificiali, senza dimenticare i 39 pizzicagnoli, dei quali 13 furono definiti mediocri, 6 cattivi, 6 pessimi e 14 passabili; in 14 cantine e in 5 abitazioni, si smerciavano poi carni di cavalli, asini e muli, senza accertamenti circa le cause di morte, ma senza tuttavia sconsigliarne il consumo, perché tali carni erano considerate appena inferiori, per qualità, a quella del bue». Molte altre furono le condizioni riscontrate dalla Commissione nominata dal prefetto, che dispose una serie di provvedimenti per affrontare la situazione, ma Bari, almeno nel 1873 non fu colpita dal colera.

Nell’estate 1973 (agosto-settembre), Bari, dopo Napoli, viene nuovamente colpita dal vibrione colerico, trovando impreparate le autorità e le farmacie senza i prodotti necessari per combatterlo: fu rinviata l’apertura della Fiera del Levante, il Verona non volle venire a giocare a Bari, mentre il Genoa non andò a Napoli. Ma in tutto questo bailamme non centrava né Bari e neanche Napoli, la causa fu attribuita a partite di cozze provenienti dall’Algeria e dalla Tunisia. Mentre il nostro sud era incriminato a torto come “brutto, sporco e cattivo”. Un altro allarme scattò nel 1994 per alcuni casi (8), ma si trattò solo di casi isolati e di persone attempate, questa volta attribuito più a verdure, probabilmente a causa di trattamenti agricoli con acque di fogna. Ma si trattò di un vero e proprio allarme ingiustificato, poiché colpì solo persone anziane, le quali solitamente hanno, secondo l’esperto dell’Istituto di Igiene, una scarsa produzione di acido cloridrico e quindi facilitano il superamento della barriera gastrica da parte del “vibrione”. Il danno invece fu procurato ai pescatori, agli allevatori di mitili ed agli agricoltori, i quali videro drasticamente ridurre il consumo di tali prodotti.

Curiosità: fra i tanti inviati nella nostra città nel 1973 ci fu anche quello del “Corriere della Sera”, Antonio Spinosa, il quale scrisse che Bari ha due volti, quello della Fiera, dei traffici, della necessità di non intralciare lo sviluppo commerciale della contrada e quello del colera, del sottosviluppo, della degradazione igienica e ambientale. Il primo prevale sul secondo. Nella città vecchia - scriveva Spinosa - i topi sono più numerosi delle persone e, poco prima dello spettacolo serale alla TV, fanno un carosello pazzesco che si svolge fra i chiusini dei pozzi neri, le scale di casa e i corridoi, i vicoli del quartiere. Dopo vent’anni, nel 1993, la Gazzetta chiama alla direzione politica del giornale proprio Antonio Spinosa, il quale, per colmo d'ironia, sceglierà di risiedere in quella città vecchia... 'ricca' di pozzi neri e 'pullulante' di topi. Antonio Spinosa resterà alla direzione della Gazzetta per soli dieci lunghi mesi, intento, si dice, più a curare la propria personale immagine di giornalista e scrittore che quella del giornale e degli interessi del meridione (Nicola Mascellaro, http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/). (L’immagine della Colonna infame riporta nel riquadro un aspetto al microscopio del vibrione colerico).
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