'Io sono un’opera d’arte', Ilaria Palomba performer

di Francesco Greco. BARI - “In principio fu la performance… E vide che era cosa buona e giusta…”. O: “Il mio Regno per una performance”. Oppure: “Sulle mie performance non tramonta mai il sole”. Ancora: “Datemi una performance e vi solleverò il mondo”. E: “Chi di performance ferisce di performance perisce”. E si potrebbe continuare all’infinito, ma basta e avanza per rendere l’idea che la performance è, a tutti gli effetti, una password universale per aprire la realtà, un pin, il know-how, l’aleph, il vello d’oro di Giasone e gli Argonauti: l’Arca di Noè dove rifugiarsi per tentare di ridare senso e anima alle parole derubate, ai gesti quotidiani, schizofrenici, all’infelicità del mondo, all’angoscia che ci divora, alla solitudine che ci ha inghiottiti: a noi stessi. Ma anche per osservare che l’arte intesa in senso tradizionale è morta da un bel po’. Il XX e XXI secolo è il tempo della performance, della contaminazione strutturale. Si rassegnino poeti e pittori della domenica, che ancora ci tediano con i loro versi unti di moralismo e di buon senso borghese credendosi Holderlin, i loro dipinti di nature morte e sepolte millantandosi Caravaggio. E gli scultori dei busti supponenti che finiscono ai giardinetti, a disposizione dei bisognini degli uccelli. Ci pensino e riformattino il loro credo artistico-estetico prima di essere cacciati a calci dalle gallerie, scacciati dalle librerie, le accademie dell’ombelico del mondo e del vaniloquio retorico. O si suicidino (in senso estetico) col loro nichilismo autoreferenziale. L’arte è segno e sogno, installazione, provocazione, contaminazione. E’ totale, nel senso che raggruma ogni espressività: idea di fondo e conseguente sviluppo, pregne allegorie e nude metafore connesse. Perché la performance contiene tutto: la parola e il colore, la voce e il gesto, il suono e l’anima, la coscienza e il tempo, le dimensioni note e quelle ancora da scoprire. Cos’è una performance lo leggiamo a pagina 35 del libro di Ilaria Palomba “Io sono un’opera d’arte” (Viaggio nel mondo della performance-art), Edizioni dal Sud, Bari 2014, pp. 150, € 18.00: “…una donna si è posizionata al centro della sala con un pettine, un piatto, un mattarello e della pasta. Ha iniziato a pettinarsi i capelli. Una voce fuori campo pronunciava parole che avevano a che fare con il cibo, da una parte, e con la comunicazione affettiva, dall’altra. La donna ha iniziato a infilarsi degli spaghetti crudi nei capelli e poi con uno scatto, come un moto di rabbia, li ha spezzati. Ha ripetuto la cosa varie volte. Poi ha preso da un contenitore di vetro della pasta già cucinata, quindi morbida, l’ha maneggiata e rimaneggiata, se l’è messa in testa e ha cominciato a pettinare pasta e capelli con rabbia. Poi ha rovesciato tutti i pacchi di pasta per terra e ha iniziato a schiacciare maccheroni, spaghetti, conchiglie…”. Dunque è una figura semanticamente affollata: racchiude ogni forma di koinè e di espressione, ogni stratificazione temporale, ogni coreutica. Essa annulla ogni distanza: opera, artista, pubblico sono un unicum inestricabile come il nodo che solo la spada di Alessandro sciolse (Ilaria la chiama “fusione olistica”). L’uno si immerge nel tutto e diviene una cosa sola: energia universale, cosmica, trascendenza, metafisica: Margherita Hack direbbe carbonio 14. La vita contiene la morte e la morte la vita in un gioco delizioso di echi e risonanze, illuminazioni e lacerazioni del senso. L’artista barese Ilaria Palomba si definisce “esploratrice dell’hic et nunc”. Ha pubblicato versi, racconti, collabora a riviste. Fa parte dei “Cardiopatici”, gruppo artistico-letterario. In questi giorni è a Dublino (ha vissuto anche a Parigi e Roma).
Domanda: Come nasce la sua passione per la performance, qual è il background?
Risposta: Nasce casualmente nel 2011, quando Lucia Pappalardo del «Mag O», per cui scrivo, mi portò a un festival di body art estrema, intitolato «Corpo è mio», organizzato da Julius Kaiser e Kyrahm, l'artista in copertina sul mio libro. Mi colpì molto la performance di Tiger Orchid (foto Gip Cromakey) che univa la figura del Samurai e quella della Geisha, confrontandosi prima con un pavimento di vetri e poi con una suggestiva simulazione di harakiri: in lei ho visto, per un istante, una forma di verità profonda, radicata, molto lontana dal buonismo ma anche dallo scandalismo, una forma di verità intima, inspiegabile a parole. In quel contesto vidi per la prima volta qualcosa di inaudito, in un certo senso feroce, ma anche meraviglioso, un sentire altro capace di vivere il corpo in modo diverso, non occidentale, una forma di misticismo insieme nuovo e antichissimo. Durante il mio anno di studi al CeaQ, seguendo i seminari di Michel Maffesoli e approfondendo il postmoderno e il postumano, ho cominciato forse a comprendere il senso di alcuni fenomeni della contemporaneità che rinviano al tribale, al rituale, molto lontani dal razionalismo umanista. Paradossalmente è stato soprattutto leggendo Bataille, Deleuze, Maffesoli e Perniola, che mi sono accostata alle arti performative.

D. Per lei cos’è una performance?
R. Un dono, un mostrarsi visceralmente nudi, un'affermazione ma anche una negazione, una protesta, una dichiarazione di esistenza, la possibilità di affermare insieme identità e contraddizione. L'io è morto, non il soggetto si esibisce ma una sorta di inconscio collettivo che si manifesta mediante lui.

D. Ricorda la prima che ha visto e che ha fatto?
R. La prima che ho visto è stata «The artist is present» di Marina Abramovic, non di persona purtroppo ma via web; in ogni caso mi ha incuriosito, ho cominciato a fare ricerche su di lei e mi ha molto colpito leggere di «Rhythm 0», svoltasi a Napoli nel '75, peraltro, in cui l'Abramovic, dopo aver messo a disposizione del pubblico strumenti di dolore e di piacere, è rimasta ferma per ore, rischiando di essere ferita o persino uccisa da un gruppo di persone, mentre altri cercavano di salvarla, ecco che il performer non crea più oggetti o concetti, piuttosto fa emergere delle verità profonde e archetipiche sull'umano.
La prima che ho fatto è stata al termine del workshop tenuto da Franko B., ho performato al Teatro India a Roma, insieme agli altri corsisti. L'azione che avevo portato, con Monica Melani, aveva a che fare con l'interazione, il linguaggio e l'energia del colore, lei dipingeva su un foglio bagnato nell'acqua, una telecamera riprendeva i suoi tratti e un proiettore li proiettava sul mio corpo dipinto di bianco, con il capo invece coperto da un foulard nero. Su di me prendeva forma un quadro di luce mentre pronunciavo parole tratte da alcuni miei scritti. Eravamo legate da una corda e man mano che la corda stessa si tingeva di colore l'intensità dei suoi tratti e della mia voce mutavano. Credo di aver avuto il mio battesimo performativo lì, ho sperimentato poi altri linguaggi, anche più violenti, ma quelli della trance, della proiezione e del colore restano i più prossimi al mio sentire.

D. Lei gira il mondo e ha conosciuto i più grandi performer: ha carpito i loro segreti?
R. Ho conosciuto soprattutto l'underground, e di questo mi interessa parlare, sono una ferrea sostenitrice dell'autenticità, sia in letteratura che nell'arte; con questo non intendo ciò che è autoreferenziale, intendo solo che apprezzo molto chi sa essere onesto con la propria storia e con il proprio background. Gli artisti che raggiungono la fama, non parlo solo di performer ma anche di musicisti, scrittori, registi, attori, cominciano a parlare di massimi sistemi con una sorta di idealismo buonista: nulla in contrario, ma spesso noto in certi comportamenti alla salviamo i bambini che muoiono di fame una forma di sommesso narcisismo, una volontà di potenza, molto più radicata, inconscia e pericolosa rispetto a coloro che portano avanti temi che li colpiscono in prima persona. Voglio dire che l'onestà e l'empatia, quelle vere, sono rare e quando le ho scorte le ho riconosciute subito, spesso sono affiancate da forte umiltà e capacità di mettersi in discussione, quando questo manca, il lavoro non è onesto e durante la performance si sentirà. Allora il segreto che posso aver carpito, intervistando e convivendo con i più disparati performer, è: parti da te, dalle tue ferite, dalle tue gioie, dai tuoi traumi, ciascuno di noi ne ha uno, non esiste una gerarchia del dolore, a volte vogliamo sfuggire alla nostra sofferenza occupandoci di quella degli altri, come una cosa che non ci tocchi mai troppo in profondità, invece è solo scendendo nel nostro abisso che possiamo toccare quello degli altri, divenire universali.
Parlo di questo in «Homo Homini virus»: il romanzo che uscirà in primavera per Meridiano Zero. Un vero artista è, in fondo, un sacrificio.

D. Com’è cambiata l’idea di performance al tempo del web e del selfie?
R. Oggi si tende a considerare performance qualsiasi cosa, una donna che si spoglia in pubblico per cercare un editore per il proprio romanzo, per esempio, la notizia finisce subito sul web et voilà!, si parla di arte o quantomeno di protesta, fa sorridere. È molto difficile tracciare i limiti, in fondo le previsioni di Walter Benjamin si stanno avverando. Credo comunque che il criterio della consapevolezza possa permettere di tracciare un minimo di discriminante.

D. Ma conta di più l’idea di partenza, il messaggio che si vuol comunicare al mondo, oppure la tecnica e l’elaborazione che si usa?
R. Le cose vanno in concomitanza, una buona tecnica, per un danzatore o un acrobata per esempio, permette di superare determinati limiti fisici e incarnare al meglio i concetti che si vanno a esprimere; esiste anche la possibilità in cui il concetto non esista, o meglio, non in maniera conscia, alcune performance sono oniriche, surreali, e prescindono dal concetto, così è per esempio per quanto riguarda le azioni di Manuela Centrone, che ho intervistato a Parigi. Per me, personalmente, conta la verità, ammesso che esista, chiaramente non parlo di verità universali ma di onestà intellettuale, conta sentire che l'azione cui si sta assistendo sia una necessità.

D. Qual è la performance più intrigante a cui ha assistito?
R. Quella più minimale: «L'altalena» di Franko B, al Teatro India, in cui vedevi semplicemente lui, che è una presenza di un certo tipo, un omone integralmente tatuato, dondolare su quest'enorme altalena mentre un pianista suonava una melodia su un pianoforte a coda. A un certo punto la musica s'interrompe ex abrupto e senti solo il cigolio, finché l'altalena non si ferma. Ho i brividi a ricordarla, capisci che sei di fronte a un grande artista quando un'azione così minimale riesce a evocarti emozioni profondissime e ataviche. Mi sono sentita bambina, violentata, poi vecchia all'improvviso.

D. Dove, quando e cosa conterrà la sua prossima performance?
R. Adesso sto curando una serie di eventi al Closer Live Club, a Roma, insieme a Tiger Orchid, Olivia Balzar e Diego Dionisio, intitolati «Stigmate Night». Abbiamo iniziato il 20 novembre e ci saranno altre date: il 18 dicembre, con Cherie Roi, Marco Fioramanti e altri artisti, e a gennaio, con Tiger Orchid in performance e un concerto. Per quanto riguarda le mie performance, sto portando avanti un progetto di improvvisazione non teatrale (anche perché non sono un'attrice, né ho mai preso lezioni di recitazione), con Miguel Gomez (artista pugliese), basato sui corpi e sui colori, sulla comunicazione extraverbale e l'empatia, ma abbiamo in programma anche qualcosa di più inquietante e abissale, gli ho promesso però che non avrei rivelato nulla prima dell'azione.

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