ANNIVERSARI. '11 settembre, io c'ero', e c'eravamo tutti

di FRANCESCO GRECO - “Mi sento un autentico miracolato. C'era fuoco, fumo e urla altissime da ogni parte. Ho visto corpi che si spiaccicavano a terra dopo un volo di centinaia di metri. (…) Mi sentivo come in mezzo a un bombardamento...” (Piero Ciarla, chef italiano). “Tutto sotto controllo, tornare pure nei vostri uffici” (gli altoparlanti del World Trade Center).

Negarlo a noi stessi sarebbe masochistico, oltre che da irresponsabili: l'11 settembre 2001, le Torri Gemelle disintegrate da Al-Queda (costo 2600 $, i 19 ticket acquistati dai terroristi), ha cambiato il corso della Storia, ha provocato una profonda lacerazione dentro di noi, nella percezione della realtà, nella quotidianità.

La locuzione “Nulla è più come prima” è più che mai adatta, reale. Siamo tutti più vulnerabili, meno liberi, ma anche più poveri, se si pensa che gli USA, nei dieci anni successivi, per la lotta al terrorismo hanno speso circa 4mila miliardi di dollari (oltre a un prezzo in vite umane, che si continua a pagare). Da allora la paura è la compagna triste del nostri giorni quando prendiamo la metro, andiamo allo stadio, al ristorante, al centro commerciale, ecc.

Da pochi giorni è trascorso il 15mo anniversario da quella data spartiacque e bene fa l'editore romano Iacobelli a riportare in libreria “11 settembre, io c'ero”, di Giorgio Radicati, pp. 143, euro 16.50, per la cura del giornalista napoletano Giuliano Capecelatro e la prefazione di Jospeph La Palombara (collana “Frammenti di memoria”, con un'impressionante rassegna fotografica che comprende pagine di giornali).
Il saggio risale al 2011 ma è attualissimo, poiché propone materiali che, come nota acutamente La Palombara (ottimamente tradotto da Marina Astrologo), saranno utili agli storici di domani.

Ricordati iniziò la carriera diplomatica nel 1967, fu console onorario di New York dal 1998 al 2003, e parallelamente si dedica alle arti visive (mostre personali e collettive nel mondo) e alla scrittura con saggi dove parla sulla sua carriera da posizioni privilegiate.
La stessa che si trovò ad avere la mattina dell'11 settembre: “Io c'ero, ho visto, sentito (…) Sono stato abbattuto dal dolore, ma ho anche conosciuto l'esaltazione che può dare la visione di una nazione che afferma orgogliosamente la propria identità di fronte a un colpo quasi mortale”.

E c'eravamo anche tutti noi, che ci dicemmo americani, perché percepimmo la triste allegoria di quell'agguato che strumentalmente partiva da postulati religiosi ma era un attracco politico al cuore della civiltà dell'Occidente, uno scontro di valori, di idee diverse sull'uomo e la vita.

Si parlò anche di “perdita dell'innocenza”, di “prima volta”. La Palombara avalla questa tesi: “A venire sepolto definitivamente è stato il mito dell'invincibilità dell'America”. Che in realtà era già stato relativizzato a Pearl Harbour, altro fallimento dell'intelligence USA che in Europa mitizziamo.

Pochi hanno ricordato che l'11 settembre è una data fortemente simbolica per gli islamici, che contaminano fede e politica, sovrapporre sacro e profano: così sono condannati a restare nella Geenna del Medioevo.

Mentre Ricordati dà un background alla ferocia dell'Islam deviato di Al Queda ieri (e di Daesch oggi): le due guerre delle coalizioni in Irak e in Afghanistan (che però è successiva).

Ma la guerra di civiltà dura da secoli: da Lepanto alle mura di Vienna. Cambiano gli scenari ma l'intento, come aveva intuito Oriana Fallaci, è sempre uno: islamizzare l'Occidente, un Califfato dalla Spagna ai Balcani al Mediterraneo.

Se ce ne ricordassimo, forse dilateremmo la riposta “culturale”, che oggi pare surrogata dagli investimenti in sicurezza sul piano militare, che crea le premesse per guerre infinite (per la gioia dei produttori di armi).

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