NAPOLI CAPITALE. 'L’ultimo Re', poi il nulla

di FRANCESCO GRECO - Se vogliamo interrogarci sulla fine del nostro Regno (“superpotenza”), la barocca complessità in cui avvenne, “L’ultimo Re” (nel cuore del Regno), di Angelo Donno, Lupo Editore, Copertino (Le) 2016, pp. 280, euro 16,00, aiuta molto.
 
Il romanzo storico è cosa ispida, occorre una password, un’alchimia segreta per avventurarcisi, Donno (Taviano, 1959) l’ha trovata e lo ha scritto come ispirato. Una prosa tersa, istintiva, priva d’accademia e  malizia letteraria, ma densa di pathos e orgoglio di un’appartenenza, una memoria condivisa, radici antiche e nobili: il nostro dna dalla Magna Grecia (anche Taranto fu “capitale”) a Gomorra.
 
Abilissimo nell’ibridare elementi reali con l’esprìt del tempo e la psicologia dei personaggi: il Re, il suo governo, don Alfonso e il nordista Alberigo (“C’è una luce che non avevo mai visto prima..”). Coscienti che la patria è tutto quel che hanno e che dopo i gattopardi verranno iene e sciacalli, e in 150 anni sono stati tanti.

Scorre su due livelli, mirabilmente intrecciati: storico-politico, con la rievocazione delle dinamiche che portarono all’apocalisse del Sud-Nazione, e socio-culturale: la sedimentazione umana, etica, sociologica, antropologica, evoca la ricchezza di un mondo con “una sua storia, una sua identità, una sua fede”, la sua architettura sociale, la quotidianità del popolo, le vicende della popolana Elda prima a Taviano, cuore del Salento (“Quella terra potrebbe risorgere se si attrezzasse per aumentare e migliorare le sue produzioni”: è ancora così), e poi a Napoli Capitale (“vi era una vitalità che non si trovava in nessun’altra capitale europea”).
 
Senza inseguire fantasmi revisionisti o nostalgie datate, ma frugando nella memoria ferita, lo scrittore ci spiega perché i meridionali non aspettavano sull’uscio di casa i “liberatori” come “lucertole dalla faccia di dado” (Bodini). Perciò non hanno mai metabolizzato l’unità, che era un’impellenza storica - anche i Borboni accarezzavano l’idea (“siamo stati tra i primi…”), non per opportunismo ma per amor patrio - fatta poi con ambiguità, violenza sanguinaria per la normalizzazione, mal “comunicata” (“da conquistatori si comporteranno”).
 
Un’unità partita dal vertice: un po’ come l’UE, che ora i populismi stanno destrutturando: corsi e ricorsi, puro Vico, uno degli intellettuali più raffinati di quel Regno che brillava per la genialità dei suoi scienziati, imprenditori illuminati, artisti meravigliosi.

Angelo Donno
Non staremo a dire del pil più alto d’Europa, gli inglesi sponsor di Garibaldi bramosi di farsi gli affari loro nel Mediterraneo, ma “le vere canaglie… sono tutte le potenze occidentali”, i generali di Francesco II (scaraventato sul trono dall’assassinio del padre Ferdinando, “religioso, acculturato, inesperto…”, “Sto imparando a fare il re”) che spesso si arresero senza sparare un colpo (“chi sta più in alto dovrà dare molte spiegazioni”), i “galantuomini” mandati dagli agrari che appaiono sugli scenari, come preti e monaci, i “picciotti” e i baroni che omaggiano don Peppino (“scena quasi da Medioevo”), la giovane età del sovrano (struggente il passaggio in cui riflette con Elda (“percepiva tutta la sua solitudine”, “ha perso sua madre appena venuto al mondo”) di faccende di Stato (“non ho bisogno di uomini colti che usano il loro sapere per raggirarmi... Io ho bisogno di sentire la voce del popolo…”, “avremmo dovuto tentare noi di fare l’Italia”) prima di riunire il governo, tentato di concedere la Costituzione (“come quella francese”) per salvare il Regno, dei criminali fra i Mille (la patria unita ha un dna sudicio), del “pentimento” del Generale, di una serie di concause che portarono alla fine di “un mondo che non avrebbero capito né saputo governare”.
 
Come i grandi narratori che raccontano un’epica, Donno rende bene la fierezza (“neanche il Padreterno mi comanda!”), l’eroismo (“non sapranno mai quale zolla ha assorbito il loro sangue”) del popolo, il clima di scollamento, disfacimento delle coscienze (“Questa gente ha fame, seguirà il primo che gli promette un tozzo di pane…”), tra vigliaccherie e miseri interessi (“Hanno ridotto questa terra come  una puttana”). Terra che dal “sacco” non si è più ripresa e oggi i meridionali sono forestieri in casa loro.

Eravamo un popolo, c’era una dinastia (oggi seguiamo morbosamente il gossip della corona britannica), una patria. Non era il migliore dei mondi, lacerato da contraddizioni profonde, ma era tenuto insieme da un sentimento, e bisognoso di un restyling riformista (“le rivoluzioni non si combattono con il cannone, ma con le riforme”). Però era la terra nostra.
 
Non ci resta più niente, manco un po’ di autostima: i colonizzatori hanno formattata pure quella. Anzi, un lascito dell’unità c’è: le camorre, le ‘ndranghete, le corone unite, le cosche politiche che ci convivono in una perversa osmosi di interessi e commensalismo (io dò i voti a te, tu dai gli appalti a me), che depredano, abbrutiscono il presente, rubano il futuro stordendoci con volgari mantra.
 
Mentre l’ex Regno si desertifica e somiglia a un ospizio devastato da ogni sorta di xylella, metafora di tutte le lebbre di cui, impuniti e strafottenti, ci hanno infettati. Tutto è stato rimosso dai vincitori che han scritto la storia con omissis e menzogne, ma non la Storia che emerge in queste pagine appassionate, nella koinè, nel sangue che ci scorre nelle vene, nell'aria che respiriamo, nei seni delle mamme che succhiamo, nei cieli che rapiti ammiriamo, nella terra rossa che zappiamo.
 
Questo romanzo è utile al Sud per ritrovare la coscienza e la dignità perduta, l’anima di un popolo e una terra: solo sapendo chi siamo stati possiamo immaginare un futuro senza paura, da protagonisti. Grazie a Donno (www.angelodonno.it) per avercelo donato.

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