SAGGI. Le idee di Prodi contro 'Il piano inclinato'

di FRANCESCO GRECO - “Se vogliamo risalire il piano inclinato in cui siamo precipitati…”. In tempi di relativismo diffuso, di “letture” confuse o interessate, Romano Prodi (fondatore e leader dell’Ulivo, due volte premier, presidente della commissione UE, ecc.), pur tenendosi lontano dalla tentazione di un ritorno dicendosi “un pensionato felice”, offre un serio contributo di idee cool e di analisi puntuali per agganciare la ripresa e non restare schiacciati sotto il masso del declino e di una interpretazione elitaria della globalizzazione.
 
E lo fa da par suo, i toni bassi del divulgatore di razza (insegna a Bologna e Shangai), come in stato di grazia, in certi passaggi quasi in trance per come padroneggia il puzzle ispido e magmatico del reale e immagina il domani vagheggiando scenari oggettivamente possibili, recuperando e ridando etimologia (e nobiltà) a un termine antico ormai in disuso, quasi rottamato: uguaglianza, che mette sullo sfondo come se fosse un’utopia affatto impossibile.
 
“Il piano inclinato” (Crescita senza uguaglianza), Il Mulino, Bologna 2017, pp. 160, euro 13,00, sorprende e conquista per la nitidezza e l’acutezza di uno sguardo polisemico su un mondo ormai fattosi angusto, interdipendente, in cui – come si dice con un’allegoria poetica – il battito di ali di una farfalla in Amazzonia ha effetti sulla nostra quotidianità e il futuro in progress.
 
Il saggio, incalzante nella sua sintetica koinè, può sommariamente dividersi in due parti: nella prima il Professore (interrogato da Giulio Santagata e Luigi Scarola) riflette sullo status quo e le sue infinite criticità, amplificate dalla crisi di questo decennio terribilis (dal 2007 ai giorni nostri), in cui tutto è e stato destrutturato e relativizzato, la ricchezza s’è perduta, la precarietà ci ha afferrati tutti, come se il reale fosse posseduto da un dèmone perverso e capriccioso e noi attratti dalla cupio dissolvi irrazionale del “the end”.  
 
Una storytelling che scandaglia mali endemici e contingenti in un paese al fondo conservatore: il nanismo delle imprese, l’innovazione illusoria, la modernizzazione in ritardo, la ricerca schizofrenica pur in presenza di eccellenze, l’accesso al credito sempre più ostico (e non sempre per colpa delle banche), la criminalità che sporca i territori, l’evasione fiscale che li impoverisce, l‘inadeguatezza e i ritardi della politica, lo sbando della classe media, ecc.
 
Nella seconda suggerisce, ben articolato, il mainstream della rinascita: culturale, politica, economica. “Visioni” trasfigurate in un “manifesto” che mette l’uomo al centro,  la valorizzazione delle risorse umane, come se intravedesse, imminente, un neo-Umanesino che rimetta l’uomo, la sua ricchezza infinita, al centro del tutto. Un nuovo “patto sociale” che includa e non ricacci ai margini i più.
 
C’è da essere ottimisti? Passerà la “nuttata” (“stagnazione secolare”)? Finirà mai il fatalismo, la rassegnazione, l’autodenigrazione, verrà un po’ di autostima? Siamo pur sempre il paese di Caravaggio e Leopardi, Carmelo Bene e Fellini, grandi “visionari”, è il nostro dna.
 
“Sembra che solo le grandi catastrofi hanno portato una maggiore giustizia”. Gli italiani fecero volentieri i sacrifici chiesti da Prodi per la causa nobile di un’Europa che poi smarrì la sua mission. Risanò i conti trovando persino un “tesoretto”. Prevalse l’idea di bene comune opposta a quella esclusiva di Berlusconi e i suoi conflitti di interessi belli turgidi.
 
Peccato che una mente così lucida e umanamente altruista – erede e sintesi della nostra migliore tradizione culturale – preferisca i giardinetti e i nipotini. Cosa buona e giusta: Prodi ha già dato (anche agli iconoclasti sempre in agguato). E se qualcuno lo convincesse che il ruolo di nonno è compatibile, non esclude altri concept, da padre della (povera, come direbbe Battiato) patria? Il programma è in stand-bye.

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