Invasioni barbariche 2.0

di FRANCESCO GRECO - Tutta colpa di Alessandro Magno se i migranti rifanno la via inversa e invadono l’Europa “mite”, “democratica”. E meno male che la conquista dell’ecumene si interruppe bruscamente, altrimenti le invasioni barbariche di quei popoli dominati e razziati anche secoli dopo sarebbero ancora più massicce, anche se le ondate si susseguono.       

La domanda nasce spontanea: abbiamo paura della “Grande Migrazione” in se stessa o perché – con normative inadeguate e confuse - non sappiamo gestirla, prevederne e governarne le conseguenze? Siamo spaventati dalla sua semantica (per Kant gli uomini hanno “diritto al possesso comune della superficie della Terra”), complessa (“istinto insopprimibile della specie”) e per certi aspetti inafferrabile, o ci siamo arresi all’ineluttabilità dell’invasione fra Shengen e Dublino, la contaminazione, l’integrazione, finendo nel guado fatalista della cupio dissolvi del continente europeo? 
  
Ma la “colpa” è anche della nostra storia: per chi non ha nulla e senza nulla morirà, dal racconto della diaspora e dalla narrazione via telematica, l’Europa è percepita come un Eldorado che con secoli di lotte e sangue, si è dotato di un welfare “universale e gratuito” (scuola, salute, diritti), e più il suo tessuto democratico è forte, più favorisce il migrante che viene dalle teocrazie, da guerre, terrore, morte e che non sappiamo se “vedere” come ospite che cerca un’integrazione non facile o forse impossibile (gli arabi per dire conservano la tribalità della loro giustizia), o un nemico che munge dal nostro stato sociale (Salah Abdeslam, Bataclan, aveva avuto 19mila euro di indennità di disoccupazione) pronto a tutto.

Ecco allora il saggio che mancava per illuminare l’intera problematica, affrontata con una password polisemica, totale, e, fatto strano per noi, oggettiva, pulita cioè dall’ideologia che purtroppo mettiamo ovunque (da riassumere nel mantra “Anche noi siamo stati emigranti”, una assimilazione blasfema) e ci fa arrivare a conclusioni di parte, dannose alla causa di tutti. 

Fra “Europa Colpevole” e “Grande Sostituzione”, all’Europa-Occidente le migrazioni pongono in termini perentori interrogativi aspri, quotidiani, incalzanti. Che come iceberg pregni di dialettica ritroviamo in “L’ospite e il nemico” (La Grande Migrazione e l’Europa) di Raffaele Simone, Garzanti, Milano 2018, pp. 270, euro 20,00.     

E’, repetita iuvant, l’analisi più credibile sinora fatta in materia, oggettiva, senza pregiudizi (concept già in premessa). 
  
Lo scavo è multiforme: sociologico, sociale, culturale, storico (dall’Homo Sapiens ai Romani che andavano a prenderseli per l’Urbe, al colonialismo europeo in Africa, Asia, America latina, sino alle guerre dei Bush in Afghanistan e Iraq che han creato i presupposti di Al-Queda e Isis), antropologico, psicologico, mediatico, ecc. Supportato da un’ampia bibliografia, che va da Amartya Sen a Thomas Mann.
  
Lo sguardo, il taglio di luce su un pianeta per certi versi ancora ignoto (non sapevamo, per dire, che un quarto della popolazione mondiale non sogna che di emigrare, indagine Gallup 2008, né perché non vanno in Cina, Giappone, i paesi arabi ricchi, la Russia sconfinata, ecc.), è crudo, senza paternalismi né conclusioni troppo facili dettate dal politicamente corretto. 
   
Fra ddd e skilled, Simone formatta tutti i luoghi comuni in materia, tipo quello che i migranti daranno fiato al calo demografico e ci pagheranno il welfare, come se non invecchiassero mai.
   
All’ultima pagina ti chiedi che futuro abbiamo se da qui se ne vanno i cervelli e arrivano, nella migliore delle ipotesi, operai generici. La risposta dovrebbe darla la politica, ma è troppo presa da propaganda e populismo (vedi di politici sul “Sea Watch 3”).
  
Procuratevelo, smetterete di credere alla sociologia da bar sport dei tg e dei giornali, e a chi parla di immigrazione frullando banalità e stereotipi, ma se chiedi loro: “E tu, come faresti?”, ti darebbero risposte inadeguate, dense di un universalismo (la Chiesa) che danneggia per primi proprio i migranti.
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