Arte: le voci di cartha di Marius Branca genio barocco

di FRANCESCO GRECO - SPECCHIA (LE). Scolpisce, dipinge, scrive versi struggenti. Un artista plurale, multitasking (“Corro, danzo, saltello”), come nel mondo greco-romano e nel Medioevo. Estate e inverno gira con un cappello a larghe tese. Studi e studio d’architetto, lo chiamano “il professore”, ha una stretta di mano calda e forte, guarda negli occhi chi gli sta di fronte. “Scarufaterra dei miracoli” (come tutti noi, con orgoglio), Marius Branca è un uomo enigmatico: piacerebbe a Fellini.
 
In un’epoca in cui il marketing è un’ossessione, a chi va a trovarlo regala il libro in raffinata veste editoriale (FOR srls, Nociglia, Lecce) che come uno scrigno racchiude la summa della sua genialità polisemica (“l’alchimista che infonde anima” con la “zappa lucente come scure regale”): le poesie, le sculture, i disegni e più in generale la sua visione del mondo, dell’uomo, del passato, del divenire, la sua filosofia esistenziale (“Essere/ al non essere”), l’estetica, l’epos della sua terra difesa come “armigero zappatore”: tutto ciò che la sensibilità dilatata, dionisiaca (“l’ebbro grappolo della vita”, “ebbrezza di vigna”), quasi dannunziana (nella declinazione erotica, ma senza la retorica del Vate), di un uomo osa, vede, vive nella pelle durante la sua parabola purtroppo limitata (“il fuoco del mio tramonto”).
 
“Quibre” (Voce di cartha). Protoplasti d’argilla, Accademia d’Amendolia Edizioni, Specchia 2017, pp. 160, s.i.p. (prefazione di Beppe Longo, postfazione di Luigi De Mitri) è un lungo, periglioso viaggio dentro se stessi, la propria anima, il fato, come Ulisse, Dante o Pietru Lau, in cerca del proprio aleph, della Terra Promessa, del senso primitivo delle parole e le cose, dell’uomo, dell’essere, dell’avere. Anabasi scheggiata, orfica, senza confortevoli mediazioni (“fuori dal labirinto della forma”), facili certezze, tantomeno finzioni (“Scriba dei cieli liberi…”). Guardando negli occhi le divinità, di ieri (Lito-idolo), oggi e domani, senza turbamento né soggezione (“Non temo l’inferno”), (“in attesa di una nuova aurora astrale”). 
 
A Specchia (“tutto fai tu come l’ape/ dolci baci sulle labbra come miele…”, “allattata la mia bocca/ agli alveoli delle tue arnie”) Branca ha disseminato di opere ogni anfratto della sua dimora, sulla mitica Cardigliano dove “la Filomena, dolce canto trilla”, odorosa di malva e timo, mirto e gelsomino, “una tenuta di luce, fiancheggiata da una collina argentata di ulivi”, e dove, se tendi l’orecchio senti “i calzari dei Saraceni armigeri” e il “litaniare dei dialetti Francigeni”.
 
La sua arte affonda solide, pulviscolari radici nel mondo classico (e neo-classico), di cui Branca è l’ultimo giullare su questa sponda del Mediterraneo, dove Oriente e Occidente convivono nei loro archetipi culturali fondanti. La monumentalità delle opere (e la carnalità delle soluzioni) è ancorata alla classicità di cui – anche inconsciamente (“A me stesso straniero/ la mia propria argilla”) - siamo contaminati e richiama il Fidia e il Gaudì di ieri e il Picasso e il Brancusi d’oggi, come i monoliti dell’Isola di Pasqua e quelli di Stonehange.
 
Che parte dal passato (“venivo piantato dentro/un lito-stompu”), dal suo cuore più nobile e prezioso che batte in noi (“stillicidio di sudore”), l’artista (“terreo illetterato”) lo svela già nella dedica, ai nonni Rosaria e Tommasino “baciando e stringendo di un amore infinito le loro reumatiche dita”: gesto che dovremmo compiere tutti almeno una volta nella vita, almeno per lenire la nostra solitudine cosmica, poiché “Nella sintesi di ogni mente, c’è tutto lo scibile dell’immenso Universo”, “tutti gli alfabeti di Babele”.
 
Se per noi eredi della Magna Grecia (e dei misteriosi Messapi) la bellezza è un’ossessione, è nei cromosomi (“sete del suo sanguigno bello”, “armonie cosmiche”, “il trarre dal nulla/ tutto ciò che è bello!”), come l’ansia d’immortalità (“Nulla è per me la morte”), con le sue “profonde angosce esistenziali” (Longo) Branca le incarna perfettamente, plasticamente (“Le mie essenze/ sono divine ed eterne”).
 
Densa è l’opera di silenzi e passioni, di luce e d’ombra, di poesia (“Del tuo arpeggio mi ammalia la parola”) e magia, di mistero e follia, forza e dolcezza, sensualità e pallidi ossi di seppia. Ma sia i versi (“ghirigori seriaci”) che le tele (“cromatico dell’immenso”) e le sculture (scosse da “misteriose forze cosmiche imponderabili”, De Mitri), al loro nucleo intimo racchiudono allegorie dirompenti, al di là del bene e del male (Nietsche), pregne d’una ricca, sontuosa semantica dove convergono infiniti mondi, universi (“E il sole/ e la luna/ e le stelle/ e le sfavillanti meteore…”), messaggi decodificabili (“al paradiso preferisco l’inferno“), ma anche, o soprattutto, onirici, subliminali, metafisici.
 
Che fra “cappereti maliardi”, “redole fiorite d’orobanche” e “rossi vividi rosolacci”, nella terra dove “tenue nei colori/ si imperla il mandorlo”, che odora di “profumo d’Eden” dove “stanca la morte si assopisce…” e “il mio cuore arpeggia/ secondo il ritmo/ della zappa”, sono là ad attenderci, se solo perdessimo lo sguardo all’orizzonte, l’infinito che cercò Leopardi fino al tormento/sfinimento/smarrimento.

Chissà, potremmo trovare “teneri veleni d’Ambrosia”.

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