Cavoti, l’erudito


FRANCESCO GRECO -
Dal Galateo (Antonio de Ferrariis) a ser Matteo Tafuri, Terra d’Otranto è da sempre ontologicamente terra di eruditi, di sapienza multitasking, che corre viva e feconda in superficie e carsicamente. 

Intrecciando l’antropologia con la genetica, potremmo azzardare che ciò si trasfigura in un archetipo che innerva ogni ceto sociale: l’intellettuale si misura con ogni ramo dello scibile, il popolano sa di terra, di pietra, di artigianato, ecc.

Potremmo definirlo il nostro fuoco greco, quello che Prometeo ruba agli dei. E ciò traccerebbe in maniera significativa il nostro background culturale e identitario, che nasce nelle agorà di Atene e poi di Roma, nei convivi, i simposi.

In questo solco profondo si inserisce l’erudito Pietro Cavoti da Galatina, “scoperto” e proposto attraverso i suoi taccuini e il copioso materiale che ha lasciato (in dotazione al Museo che porta il suo nome) da Antonio Giuseppe Lupo in “Pietro Cavoti: I taccuini, le pagine di cronaca del tempo”, Libermedia, Galatina 2020, pp. 48, s.i.p., Cahier 1 (collana di studi e approfondimenti), con la dotta prefazione di Salvatore Luperto (direttore artistico del Museo), le note di Marcello P. Amante (sindaco della città), Cristina Dettù (assessore alla cultura e al polo Bibliomuseale) e di Monica Albano, gestore dello stesso.

E dunque, se è vero che quel che riesci a non buttare oggi, domani sarà documento e testimonianza, Pietro Cavoti conservò molto e pubblicò pochissimo, celiando, scettico, un po’ per modestia un po’ forse per eccesso di autostima: “…finchè i pensieri della nostra mente stanno rinchiusi qui nella cassa del cranio, possiamo plasmarli a nostro piacere perché ne siamo i padroni assoluti… Ma se poi ci risolviamo a scriverli sulla carta, essi diventano dei nostri figli ai quali abbiamo dato l’esistenza… allora quei figli diventano patrimonio del pubblico. E non vi è più rimedio: o buoni o cattivi, dobbiamo subirne le conseguenze”.

Originale, ma più o meno è lo stesso pensiero di Cesare, che infatti scrisse di suo pugno il “De Bello Gallico” per parare le fake news e la piaggeria degli storici.

Un “pozzo di San Patrizio”: così in prefazione Luperto definisce il materiale del Fondo Cavoti. Due dei numerosissimi taccuini inventariati (dall’appassionata Donatella Trono), 3393 e 3413, bastano a rendersi conto che la seconda metà dell’Ottocento, in Terra d’Otranto ma anche extra moenia (Firenze e Napoli fra le altre), è segnata dalla viva quanto operativa intelligenza di questo intellettuale unico nel suo genere, che riuscì anche a mettere mano alla facciata della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria per dire quanto i contemporanei si fidassero di lui.

Ad avere rapporti epistolari e personali con gli intellettuali del periodo post-unitario, complesso e turbolento. A farsi applaudire da platee esigenti e qualificate: il decimo congresso degli scienziati italiani (Siena, 1862), per esempio, dove seduce la platea parlando di archeologia in Toscana. E intuendo, in anticipo sui tempi, l’importanza del passato e delle sue vestigia in un paese, il nostro, che ne concentra i due terzi dell’intera umanità e “che ha in ogni sasso un monumento di grandi glorie e di grandi sventure”.

Nulla o quasi sfuggì ai suoi interessi: arte (architettura, scultura, pittura), letteratura, storia, grafica, disegno (china, acquerello, carboncini, grafite, ecc.), le lingue: citazioni in francese, tedesco, greco e latino.

Fu anche un ottimo docente, iniziando nel 1860 al locale Collegio degli Scolopi (Francese, Calligrafia e Disegno) come riconosce Cosimo De Giorgi.

Questo volumetto ha il pregio di ricostruire non solo l’intensa parabola umana e artistica di un uomo, ma di far intravedere in controluce un’epoca, un tempo segnato dalle passioni risorgimentali che portarono all’unità d’Italia. Che Cavoti visse con partecipazione, arricchendolo della luce del disincanto e del dubbio. Atout dell’uomo mediterraneo, delle culture indoeuropee, nate al sole delle agorà ateniesi: lo stesso delle piazze della sua Galatina.

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