Romanzi: Storia di Nella, il coraggio di tutte le donne

di FRANCESCO GRECO - Antonia Occhilupo è scrittrice della memoria. Quell’affabulazione che scorre come un ruscello, gaio e scintillante, sotto il sole della primavera. E che è mutuata dai “culacchi” e dall’oralità popolare con cui avveniva il passaggio di vissuto da una generazione all’altra, nelle sere d’estate al fresco dinanzi all’uscio di casa e d’inverno mani aperte davanti al fuoco, nell’altro secolo, prima che la tv da mezzo diventasse fine dettando i tempi della nostra quotidianità frullando parole morte.

Immaginiamo che la scrittrice pugliese sia stata un’attenta ascoltatrice sin da bambina, impadronendosi in tal modo dei topoi barocchi di genere e di Terra d’Otranto. Così la memoria diviene un transfert di identità, un mettere a nudo, attraverso il logos, nobili radici riccamente innervate, l’epos sedimentato, l’etos trasfigurato, miti e valori respirati sin dall’infanzia e trasportati con dolce naturalezza sulla carta.

E’ il sostrato sociologico e antropologico che come il fuoco di Prometeo sostiene l’architettura possente di “Non uccidere il coraggio”, Youcanprint editore, Tricase 2017, pp. 262, euro 16,00 (bella prefazione di Giancarlo Colella), quinta opera di Antonia Occhilupo, nata ad Acquarica del Capo (sud Salento), psichiatra, vive a Lecce con la famiglia.      
 
Se, per dirla con Eichendorff, “il solo modo di aprirsi un varco attraverso il tempo è un autentico dolore”, la scrittrice lo conosce bene, purtroppo, sulla sua pelle. Ha accettato la dialettica col male fisico, è riuscita a portarla fuori, a scriverne con un’invidiabile serenità.
 
E’ una password utile a decifrare tutta la sua opera. Inclusa questa, dove la scrittrice sovrappone l’io narrante, Nella, al suo vissuto, in un gioco di echi e rimandi molto intrigante. Il romanzo corre su più livelli: psicologico, anche psicanalitico, storico, di costume, sociale: tali percorsi si intrecciano, si separano, tornano a contaminarsi, dando vita a un affresco del Novecento con i suoi equilibri e architetture sociali più pregno di un saggio.

Ruggiano si trasfigura così in una Macondo mediterranea, un luogo incantato, fiabesco, fatto di riti e superstizioni, popolato di personaggi come un film di Fellini (puro “Amarcord” lo sposo dichiarato pazzo e rinchiuso nel manicomio perché la prima notte ha maltrattato il seno della moglie), dove avviene l’iniziazione alla vita di Nella (e le due sorelle), nata in una famiglia contadina, col padre (“tata”) reduce dalla II guerra (“era stato soldato in Albania”) di cui poco vuol raccontare (forse perché ha visto troppo orrore) e una madre che un giorno le cuce un saio e la porta in chiesa per ringraziare Sant’Antonio di aver guarito la figlia. Che poi salirà sull’ascensore sociale studiando a Padova (assiste live alla morte di Berlinguer che parla a Piazza della Frutta), come chiede la madre (“Fatti coraggio”), e assumerà uno sguardo universale sul mondo, le cose, gli uomini, i sentimenti.

Una prosa magmatica, densa di umori e sapori, molto evocativa, dolce e aspra (“la dignità degli umili mista all’ineluttabilità del destino”), con l’uso appropriato del gergo dialettale che ben supporta il codice identitario mediterraneo cui la storia fa riferimento, sapendo che il dialetto è la nostra prima lingua, quella che succhiamo col latte materno.  
 
Dolente e magnetica, energica e coraggiosa, Nella è tutte le donne sparse a ogni meridiano e parallelo (Africa, Asia, Medio Oriente, America Latina), convinte della propria mission, coscienti della propria forza e mistero. 

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