Panico, versi per immaginare altri mondi

di Francesco Greco - Tracce di Leopardi, il suo sgomento esistenziale. Ma anche echi di Pavese, il grido di dolore. E, a ben cercare, il pathos dei poeti maledetti, il grido angosciato dell’albatros. Degli uni e degli altri, l’osmosi strettissima fra poesia e vita: la vita finisce nella poesia, la poesia che impregna profondamente la vita. “Il sacro è nel mio cuore” (Viola Editrice, Roma 2014, pp. 130. € 10,00, collana diretta da Simona Tuliozzi, il libro è dedicato all’antropologa Ida Magli), la quarta opera in poesia di Mario Sandro Panico (pugliese trapiantato a Roma) si colloca nel solco delle raccolte precedenti come in un lungo, ininterrotto flusso di memoria, di appunti, di post-it, di messaggi in bottiglia alla deriva del tempo e della vita.

In prefazione Lina Lo Giudice identifica nella “speranza” e nel “dolore” quelle che chiama le ”forze motrici” della poesia di Panico. Ma sono solo due delle password dell’universo interiore del poeta nato a Racale (Lecce) nel 1956. Poiché è un mondo complesso, barocco quello da cui germinano versi forti, che procurano un senso di smarrimento, di lacerazione, di sofferenza.

La stessa Lo Giudice aggiunge che Panico “vuole risvegliare le parole e sottoporle a una sapiente manipolazione, per asservirle a uno stile tutto suo”. E’ vero: il poeta – forte anche dei suoi studi in Antropologia – dona alle parole una luce e una forza maieutica, una potenza quasi iconoclasta, come se scolpisse delle epigrafi a futura memoria. Con dilatata, estrema sensibilità, con tutti i sensi tesi, egli sogna il Paradiso perduto miltoniano, l’agorà incendiata dal sole (“Nella piazza antica / esibisco l’anticipo / e con cautela fermo / l’io ansioso”) che forse ha lasciato nel suo assolato paese del Sud e dove ognuno è felice, in pace col suo cuore, contento del poco che ha, una gioia che condivide con gli altri, ma anche il dolore morde di meno se lo si spartisce con chi ci sta intorno.

E se è vero che Paul Eluard sosteneva che la poesia è “chiamare le cose con il loro nome”, che “nominando le cose”(Hanna Arendt) ogni giorno assistiamo allo stupore della creazione che si manifesta davanti al nostro stupore di eterni Peter Pan, possiamo dire che la poesia di Panico scandaglia la “prigione” in cui siamo tutti rinchiusi (“Uno + Uno = Uno”), ci fa respirare gli odori del Mediterraneo che stordiscono, ci contagia i colori del mondo intorno, ci fa sentire il rumore della pioggia (“Cerco di cogliere mausolei / in un mondo di stelle / che spalanca al vento / l’infinitesimale bellezza”).

Con i suoi versi egli non solo si inventa una personale koinè (facendoci entrare nel suo laboratorio anche con curiosi neologismi: “zirlanti”, “scombacio”, “Europa illecebra”, “vestiario massonico immacchiato”, ecc.) ma relativizza l’etica perversa del nostro tempo (“Le distanze si sono aperte / all’ideale della Bruttezza”), per cui chi non è giovane, bello, ricco è ricacciato ai margini e non può godere della bellezza dell’universo (“Accarezzando l’urto di felici / canti d’amore…”). Panico invece rivendica per tutti noi l’appartenenza e il diritto a vivere (“Non ho più posto / per il mio entusiasmo”) senza volgari dicotomie fra il desiderio e il reale, il sogno (“in quel notturno così stellato”) e l’asprezza del quotidiano.

Come un bambino con l’argilla o come quello della parabola di Sant’Agostino che voleva svuotare il mare con una conchiglia, Panico destruttura il reale “pace ornata di sabbie mobili” per immaginare altri mondi (“Basta con le banche”, “quel banchiere… / sputato dalle viscere della Morte”), invoca “dei silenziosi” chiedendosi senza finti pudori “Chi può dare giudizio / alla Vita?”. Già, chi se non il poeta che vive sulla propria pelle, la sua carne le feroci unghiate sanguinanti dei suoi versi?

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