La Weltanschauung di Federico nell'epistolario di Pier della Vigna

di Francesco Greco  - Fu una delle intelligenze più brillanti del XIII secolo, in Italia, forse in Europa. Intellettuale alla corte di Federico di Svevia di cui tenne “ambo le chiavi/del cor” (Dante), genio polisemico (“pulchrissimus dictator”): erudito, padrone della lingua (ars scriptoria, stilus altus), logoteta, diplomatico, “magne imperialis curiae iudex”, forse collaborò alla stesura della Costituzione per il Regno di Sicilia promulgata a Melfi, imprenditore (a Foggia e in Terra di Lavoro ebbe case e vigneti, patrimonio anche ecclesiastico che curiosamente finì al nipote cardinale).

E tuttavia, un cono d'ombra si riverbera sull'intensa parabola umana e politica di Pier della Vigna: vita, opere, gesta. Smentiti i natali poveri (rimase orfano d'improvviso), confermati gli studi poco accademici, quasi da autodidatta. Una tesi suggestiva vuole che l'Imperatore lo avesse investito di una mission impossible: i postulati di una nuova religione. Ciò svela quanto sia stato dentro i gangli culturali e politici del Regno.

Purtroppo prevale l'approccio dettato dalla cultura cattolica, manicheo, senza chiaroscuri: laudatores tou court, denigratori infidi. Una scuola di pensiero vuole che, dopo quasi 30 anni di “fedele servizio” al suo Sovrano, a perderlo sia stata l'eccessiva autostima, il demone dell'ambizione, ma anche l'avidità di beni che avrebbe accumulato profittando della carica, ricchezza sparsa anche ai famigliari.
Doveva “annunciare ai sudditi del Regnum i proclami dell'imperatore”, finì a brigare col Papato fuori dal mandato, tanto da essere sospettato di intelligence col “nemico” da Corrado IV figlio di Federico II (“proditor”, crimini contro il sovrano o lo Stato) perché, con i “contatti proditorii con il papa” avrebbe portato l'impero sull'orlo dell'abisso. Ma forse cercò solo di tornar in seno alla Chiesa “secolarizzata”, il Sovrano era avviato sulla via della scomunica.

Il “Capuano” finì suicida (Dante lo mette in quel girone, canto XIII dell'Inferno, 46-108, e gli fa dire a sua difesa che a dannarlo fu “l'invidia dei cortigiani”). L'Imperatore lo fece accecare: cos'aveva visto? Visse un crepuscolo di stenti, sensi di colpa. Pare che si sia ammazzato sbattendo la testa al muro, o una colonna. Forse dopo aver chiesto invano asilo a Enrico III, il Re d'Inghilterra, con cui aveva un buon rapporto (la sorella Isabella, per procura, era divenuta moglie dell'Imperatore il 22 febbraio 1235), tanto da averlo gratificato di una rendita annuale di 40 lire d'argento.

Pier della Vigna, o delle Vigne (Capua, 1190) è una password semanticamente affollata per approcciarsi sensatamente al Medioevo che ormai scolora nell'età moderna e di cui l'Imperatore può essere ritenuto l'avanguardia, l'alfiere di un mondo nuovo in nuce. Il Duecento è segnato dallo scontro fra una Chiesa che detiene il potere temporale (eserciti, tribunali, ecc.) e che ha una sponda nel Re di Francia, letta come forza di conservazione e privilegi (lo dice Francesco d'Assisi, contemporaneo) e l'Impero: visioni contrapposte del mondo, l'uomo, la Storia. Il pensiero cattolico relativizzato dalla concezione laica, modernizzante, “libera Chiesa in libero Stato”, del “Puer Apuliae”.

Dipinto da una certa aneddotica come mangiapreti (Salimbene de Adam parla di “malvagità”), in realtà di ampie vedute, un radicato senso dello Stato (realpolitik) che non gli impediva, in certi snodi storici, di ergersi a difensore della cristianità. Come quando si scusa col re d'Ungheria per non essere intervenuto contro i Tartari “pericolosi nemici della cristianità”, trattenuto in Italia “dall'ostilità del Pontefice”: paradossi del potere. La Chiesa comunque formatterà, dopo Federico, la dinastia sveva.

“L'epistolario di Pier della Vigna” (Rubbettino, Soveria Mannelli, Catanzaro 2014, pp. 1160, euro 59,00), trasfigura la ricca e fascinosa weltanschuung di Federico, sovrano illuminato. 365 lettere (mittenti e destinatari, luoghi e nomi, soprattutto degli anni 1236-1248), con traduzione a fronte, incardinano un pensiero politico di grande respiro, escatologico, innervandosi su più livelli: la geopolitica continentale, ma anche oltre (l'accordo col sultano d'Egitto Malik al Kamil, Crociata 1228-1229), i rapporti con le potenze vicine, l'aristocrazia, la burocrazia, i popoli federati, le rivolte (“i nemici che ci sono familiari sono la malattia più pericolosa...”), la famiglia, ecc.

E sorprendendo per acutezza e lucidità, si contamina con la quotidianità del popolo, la gestione spicciola del potere in tutte le sue espressioni: inclusi i cortigiani ostili poi pentiti che invocano clemenza, e la ottengono. In questa corrispondenza nitida e senza orpelli né allegorie si intravedono le radici dell'uomo moderno, la sua caleidoscopica identità, la dignità, l'ansia di un futuro che Federico interpreta e incarna avendo come costante riferimento il senso dello Stato, le istituzioni, le dinamiche del governo: una lezione politica che si è aperta un varco nel tempo, di straordinaria attualità, specie oggi che abbiamo a che fare con statisti della domenica.

Un lavoro ponderoso, prezioso, degno di encomio, opera di studiosi di quel Sud tanto amato dal Sovrano, dal Centro Europeo di Studi Normanni di Ariano Irpino, collana “Fonti e Studi” (nuova serie) diretta da Ortensio Zecchino, Aurelio Cernigliaro, Errico Cuozzo. Col coordinamento di Edoardo D'Angelo, edizioni critiche di Alessandro Boccia, lo stesso D'Angelo, Teofilo De Angelis, Fulvio Delle Donne, Roberto Gamberini. Comitato scientifico: David Abulafia, Girolamo Arnaldi, Claudio Azzara, Mario Caravale, Edoardo D'Angelo, Cosimo Damiano Fonseca, Giuseppe Galasso, Hubert Houben, Graham A. Loud, Jean N. Martin, Giorgio Otranto, Andrea Romano, Wolfgang Sturner, Salvatore Tramontana, Anna Laura Trombetti Budriesi, Alberto Varvaro. Chapeau!

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