MLK, se il sogno dei Negri non può aspettare...

di FRANCESCO GRECO — I have a dream... Il sogno gli è sopravvissuto. E sempre vivrà, immortale, là dove c'è ingiustizia sociale, prevaricazione, soprusi, diritti e libertà negate, orrori e brutalità del potere sull'uomo.

Il 4 aprile 1968 Martin Luther King, leader americano del movimento nonviolento e la disobbedienza civile, Nobel per la pace 1964 (il 21 marzo 1966 l'ONU aveva istituito la “Giornata Internazionale per l'eliminazione della discriminazione razziale”), era a Memphis (Tennessee), era affacciato al balcone della sua stanza in un alberghetto.

Gli spararono, morì mentre l'ambulanza correva in ospedale. Aveva a 39 anni. Non era la prima volta che tentavano di ucciderlo: anni prima, in un negozio di Harlem, una donna gli aveva dato una coltellata al petto sfiorandogli l'aorta. E' l'America, bellezza!

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Stessa sorte dei due Kennedy, Jhon e Robert, forse Marilyn Monroe (a conoscenza di qualche segreto di Stato). Malcom X era stato assassinato il 21 febbraio 1965 a Manhattan. I segregazionisti annidati ovunque (anche nel Partito Democratico dei Kennedy, i Dixiecracts) intendevano blindare lo status quo. Ma ormai i tempi erano maturi, esponenziali e il corso della Storia stava per darsi un altro ritmo, una nuova modulazione.

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Se chi muore giovane è caro agli dèi, MLK divenne l'icona di milioni di giovani, che si trasmettono con l'immaginario e il dna di generazione in generazione. Il suo sogno, un'America dove tutti hanno pari dignità e opportunità (“che tutti gli uomini siano creati uguali”), è sconfinato in un presidente di colore, Barack Obama, il primo della sua storia.

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La breve ma intensa parabola del grande rivoluzionario, che riuscì a mobilitare milioni di persone (“la lama che rimargina”) nella celebre Marcia su Washington (1963, “l'estate del nostro malcontento”) il background del suo pensiero, le articolazioni intime della “Rivoluzione Negra” (ovvero: la terza rivoluzione americana), è ricostruita in “Perché non possiamo aspettare”, Piano B Edizioni, Prato 2016, pp. 192, euro 14 (Collana “La mala parte”). Per la Modern Library, uno dei 100 saggi più importanti dell'intero Novecento in lingua inglese.

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Lo stile rapsodico e rabbioso svela lo stato d'animo di MLK e la tenacia del suo sogno (poi ereditato da Cassius Clay, che però lo avrebbe declinato in chiave islamica, ma il figlio, MLK, era ai suoi funerali il 10 giugno 2016).

L'America aveva 20 milioni di Negri (così li chiama MLK), di figli di un dio minore. La loro libertà era in ritardo sul quadrante della Storia. Nel 1963, in Africa 34 nazioni si erano liberate dal colonialismo. Il tempo incombeva, ognuno ha il suo destino.

Il leader contestualizza la rivolta pacifica dalle metropoli ai ghetti e ai villaggi di case di fango che quell'anno incendiò l'America sia a livello nazionale (la riforma della scuola, nonostante una sentenza dell'Alta Corte, restava lettera morta: vecchio trucco del potere ubriacare di parole vuote l'uomo) e sia in una cornice più ampia: la guerra fredda (“i Negri avevano visto più di una volta il loro governo giungere sull'orlo del conflitto nucleare”).

Di pagina in pagina, incalzanti, le interfacce dense di pathos di una rivoluzione che ha cambiato il corso della storia e che, come il battito della farfalla nella foresta brasiliana, ha avuto riflessi benefici anche sulla nostra vita: il sogno è sempre universale, come l'energia possente che ci possiede e muove il mondo: forse la materia ultima.
I have a dream...

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