STORIA. 'Processo a Caporetto', e all'Italia

di FRANCESCO GRECO - Zio Vito Maria Giuseppe era un ragazzo dell'89. Era nato a Montesardo, nel Capo di Leuca, il 17 marzo. Era il fratello maggiore di mio nonno Ippazio Antonio (1893). Un ragazzo solare, estroverso, che si guadagnava la vita lavorando al frantoio di Sant'Angelo del barone Sauli. Aveva tanti sogni e speranze.
 
Partì per il fronte e alla prima licenza si fece cupo, si chiuse in casa, stava sempre sotto al focolare della grande casa di via Soleto, quella dei “Suja” (il soprannome dei Greco). La madre Vita Maria (1852) e il padre Cosimo (1846) gli chiedevano della guerra, e lui rispondeva triste: “Se voi aveste visto quello che ho visto io...”.
Forse aveva un presentimento.
 
Tornò al fronte, e di lui non sapemmo più nulla. Si diceva che fosse morto col gas degli austriaci. 80 anni dopo, io, bisnipote, trovandomi a Trento, al Museo della Grande Guerra, ho scavato e alla fine ho saputo che davvero era morto nel giugno del 1916 in seguito a un attacco degli austriaci con i gas (poi usati anche in Vietnam, oggi in Iraq, Turchia, Siria e domani chissà dove). Che è stato sepolto per decenni in un cimitero militare e che da qualche anno le sue ossa riposavano, in “forma perenne”, al cimitero monumentale di Udine.
 
Se è vero che la microstoria confluisce nel mare magnum della Storia, in questo secolo, la storiografia ai suoi vari livelli (ma anche la letteratura: da E. M. Remarque, “Niente di nuovo sul fronte occidentale” a Hemingway, Dos Passos, ecc. e il cinema, “La grande guerra” di Monicelli con Sordi e Gassman e “E Jhonny prese il fucile” di Dalton Trumbo) non ha smesso di interrogarsi sulla disfatta, dilatandola di senso, affollandola di grumi semantici.
 
A soffermarsi sulle sue dinamiche è Luca Falsini con “Processo a Caporetto” (I documenti inediti della disfatta), editore Donzelli, Roma 2017, pp. 226, euro 28 (prefazione di Angelo Ventrone).
 
Caporetto è dunque sinonimo di resa incondizionata, l'allegoria di un tradimento ideale, di fuga senza dignità, non dei soldati, mandati al macello (la replica avvenne poi in Russia e nei Balcani, nella seconda guerra), ma di chi avrebbe dovuto motivarli e guidarli. Era già accaduto con i generali di Francesco II, a cui i soldati chiedevano: “Ci arrendiamo senza sparare un colpo?”. Così Caporetto, incubata da cause concomitanti, impregna il nostro dna umorale, venale, inaffidabile.
 
I retroscena di una guerra “laboratorio dell'umano” e “laboratorio storiografico” (Ventrone), un conflitto “totale” per l'ampiezza del fronte, gli echi e le risonanze geo-politiche (anche successive), sono ricostruiti col materiale inedito rimasto in un baule, gli atti della commissione d'inchiesta voluta dal primo ministro V. E. Orlando, e il volar di stracci, topos del nostro dna molto pittoresco, coreografico (italian style) del rimpallo di responsabilità fra le alte gerarchie militari (“il vero disfattismo”), per salvare la faccia, dopo aver fatto di tutto per finire accerchiati, da dilettanti in tattica militare (“ordini insensati”, “inutili carneficine”), e “codardia, inesperienza, pioggia e foschia, equipaggiamenti non adatti, strategie discutibili, morale depresso...”.
 
Una guerra in cui la propaganda dei soggetti coinvolti ebbe un ruolo forse decisivo (ma non è così in tutte le guerre, da Troia in Normandia al Golfo?). Gli umori della trincea erano decisi sia dalla lotta politica interna che dal contesto internazionale (la Rivoluzione d'Ottobre), e spiega forse anche quella “massa di fuggiaschi disarmati...”.
 
Le classi dirigenti, gli apprendisti stregoni, giocarono con i popoli e gli uomini con leggerezza: chi si salvò fu poi vittima della “spagnola”.
 
E se la Storia è ciclica, corsi e ricorsi, da allora lo stereotipo si è ripetuto infinite volte, ovunque. E lo si può dire anche senza bauli polverosi e carte tarmate: Hemingway aveva intuito l'ontologia intima della guerra sporca.

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