Il triste grido di un mondo che non riesce a ricordare


VINCENZO NICOLA CASULLI - Due uomini differenti, che non si conoscevano. Due vite diverse, accomunate dalla stessa tragica fine. I can’t breathe. Le ultime disperate parole pronunciate per cercare di sfuggire alla morte. Moriva così George Floyd, mentre un agente di polizia di Minneapolis gli premeva le ginocchia sul collo, schiacciando il suo volto sull’asfalto. Una scena brutale che ha fatto il giro del mondo e che ricorda quello che accadde nel luglio del 2014 a Eric Garner a New York. Anche lui ucciso da un poliziotto al grido disperato di « I can’t breathe».

Sono passati sei anni dal tragico evento newyorkese, ed il mondo intero, preoccupato da quella violenza inusitata, si fece megafono di questa campagna contro le violenze da parte delle forze dell’ordine che si scagliavano spesso e volentieri contro i neri attraverso manovre proibite che, come nel caso di Garner, portano alla morte. Il grido "I can’t breathe" è divenuto simbolo di sofferenza, monito affinchè fatti del genere non si ripetessero. Invece no.

Quelle terrificanti immagini sono tornate d’attualità e quel grido di dolore è tornato a squarciare la coscienza dell'umanità. I can’t breathe. Quel grido ripetuto fino allo stremo da Eric Garner. I can’t breathe. Lo stesso grido ripetuto da George Floyd. Sei anni dopo. La stessa storia. Il grido di dolore che doveva cambiare il mondo. Ma, purtroppo, ancora nulla è cambiato.
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