Mishima, il kamikaze della bellezza


FRANCESCO GRECO - “Il mestiere del samurai è la morte”. Yukio Mishima e il Giappone sono un unicum e un pensiero assai complessi, difficili da smontare sotto ogni aspetto e interfaccia: filologica, epistemologica, escatologica, ecc.

Ci prova Alex Pietrogiacomi in “Mishima, martire della bellezza”, Edizioni Agenzia Alcatraz, Milano 2020, pp. 160, euro 12, proponendo uno zibaldone di frasi, citazioni, estratti dall’opera sterminata dello scrittore “per guerrieri, poeti e sognatori, per uomini e donne indomiti…”. Premessa già di per sé intrigante e supponente, che tuttavia mantiene le promesse procedendo per scansioni, portando alla luce gli iceberg più ispidi di un autore molto letto ma forse ancora poco capito.

 “Voglio fare della mia vita una poesia”.
I 50 anni dal suicidio di Kimitake Hiraoka (il suo vero nome, suggeritogli dal prof. di giapponese, ma il padre sostiene l’abbia preso dalla guida del telefono), rituale dei samurai (seppuku), avvenuto il 25 novembre 1970, è l’occasione per rileggerlo (da noi è dal 1961 che lo traduce Feltrinelli, ma nel 1970 passò a Longanesi) in tutte le sue infinite stratificazioni, echi e risonanze, illuminazioni e urla.

“Fascista integrale”, ostacolato dal padre nella sua vocazione, educato dalla nonna, sospetto omosessuale o pedofilo nonostante il matrimonio, coltivò un esasperato culto del corpo cercando di scolpirselo (“Si vince con l’allenamento. Solo con quello”), inseguì un Giappone della tradizione dove anche i colombi “tubano solennemente” e che stava svaporando sotto i suoi occhi, perdendosi nei labirinti di una ritualità che senza che se n’accorgesse declinava ormai nel folklore e nel cabaret.

“Che importanza ha la forma?”.
Impropriamente accostato a D’Annunzio, fra i due passa invece un abisso siderale: il Vate non aveva quella carica di spiritualità che invece Mishima mutuò dal codice etico dei samurai. Il poeta era un dandy che spinse all’estremo il suo decadentismo in un paese culturalmente provinciale quale fummo noi in epoca fascista. Vuoto colmato dallo spettacolo, dal marketing di se stesso che l’autore de “Il piacere” praticò, fra un’impresa militare e performance erotiche.

 “Eppure la luce splende, e gli uomini lodano il giorno, io fuggo il sole, e in una tana tenebrosa getto l’anima”. Forse fu la sconfitta subìta dal Giappone in guerra, con l’umiliazione delle bombe su Hiroshima e Nagasaki a stordire Mishima. Pensò, si illuse che la fede del samurai avrebbe resuscitato quel Giappone degli “antichi ideali” e coltivò, sull’Occidente, un grumo semantico di luoghi comuni estrapolati da qualche Bignami mal tradotto, costruendosi un’immagine falsa di un mondo senza spiritualità né morale, dove siamo così volgari che cerchiamo “consolazione nell’alcol e nelle donne”. Non saranno scelte eroiche, ma nemmeno sciocche. In fondo siamo la patria di Dante, di Voltaire, di Pascal, di Kant.

A noi non interessa diventare delle divinità, è già tanto pagare la rata del mutuo e comprare le scarpe nuove al bambino ai saldi. Ci angosciamo se il 492 salta una corsa o per una multa per divieto di sosta (“desideri semplici e genuini”). Questo è l’Occidente, le spade (di legno) le usiamo a Carnevale. La domenica andiamo ai centri commerciali, inseguendo le promozioni: che c’è di male? Il sangue ci fa impressione e il vero eroismo è trovare un parcheggio. Siamo consapevoli che “nella vita di ogni uomo il tempo non ritorna”. La morte sarà pure “meta suprema di bellezza” ma le liste d’attesa sono una rottura.

Non poteva perciò che farsi sbudellare in un simposio di fanatici che qui avremmo volentieri affidato alle cure paterne del Cim più vicino o, in alternativa, a Pingitore per uno spettacolo al “Bagaglino” con Leo Gullotta, prime time su Rai 1.

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