Baresi che hanno fatto la storia di Bari: Francesco ‘Franz’ Falanga


VITTORIO POLITO –
Francesco “Franz” Falanga (1933-2018), architetto, scrittore, musicista, dialettologo e radioamatore. Un poliedrico personaggio barese emigrato in Veneto, cultore della musica e del dialetto barese, autore del volume “O dadò o dadà” (Adda Editore), una sorta di lessico ‘quasi’ ragionato del vernacolo barese, ma anche una maniera di cercare la baresità attraverso il suo dialetto. Il suo estro non finisce qui.

Falanga si laureò a Venezia in architettura con il prof. Giuseppe Samonà, durante la straordinaria stagione in cui lo stesso Samonà, Carlo Scarpa e Bruno Zevi, protagonisti della cultura architettonica italiana del novecento, insegnavano all’IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia). “Franz” è stato docente di “Elementi e architettura urbanistica” all’Accademia di Belle Arti di Bari e di Venezia.

Egli era del parere che per essere un discreto architetto bisognava leggere molto, conoscere il meglio possibile la vita e le abitudini e quant’altro degli esseri viventi (fra i quali ci sono anche gli esseri umani), non essere presuntuosi, avere spiccatissimo il senso della storia e combattere alla morte quelle persone che tentano, quasi sempre con successo, di “cancellare” il senso della storia dalle altrui coscienze, osservare con estrema attenzione le “mutazioni” che gli architetti noteranno nel corso della propria esistenza, avere sempre degli ottimi rapporti con i muratori, gli ebanisti, i fabbri, i tecnici idraulici, elettrici e con tutti quelli che, nel loro campo, certamente ne sanno molto ma molto di più dell’architetto stesso. Infine avere il senso delle cose e prima di rifiutare un progetto, chiedere informazioni sull’argomento, senza avere nessuna remora, rivolgendosi a colleghi di grande competenza e di grande bravura. Infine non aver timore di dire NO a qualche cliente. Ricordarsi sempre quello che il grande architetto Sullivan disse ad un suo cliente “signore, lei avrà quello che NOI (dello studio) le daremo”. Ultima regola, ma non per questo meno importante delle altre, mai accettare o dare mazzette anche a costo di morire di fame.

Ogni creativo, ogni progettista, quando progetta un qualsiasi oggetto di architettura o di design, nel corso della progettazione, utilizza molti parametri, molte sue conoscenze, molte sue intuizioni, molte sensibilità che gli sono proprie. In sostanza utilizza tutti gli strumenti cognitivi e culturali in suo possesso. Ovviamente ogni progettista utilizza i suoi strumenti e le proprie capacità. In questo percorso creativo ci sono però dei momenti in cui ogni progettista incontra gli stessi problemi. Questi problemi sono costanti nel tempo e nello spazio. Un progettista del quattrocento, un progettista contemporaneo, uno studente di architettura, uno studente di design, quando progettavano e progettano, incontravano e incontrano sempre alcuni problemi. Questi problemi che non cambiano mai, e che sono di numero finito e limitato, si chiamano invarianti. Va dato il merito all’architetto professor Bruno Zevi, grande protagonista dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, di aver individuato, negli anni ‘70 le prime sette invarianti nell’Architettura. Falanga ne ha individuato altre cinque e con l’amico fotografo Andrea Fantinato, è andato a raccontarle per i lettori individuandole nella magnifica e monumentale Tomba Brion di Carlo Scarpa che sorge a San Vito di Altivole in provincia di Treviso, pubblicandole in un volume “Le invarianti nella tomba Brion di Carlo Scarpa (Aurelia ed.).

L’architetto Falanga le verificò personalmente da solo e con i suoi studenti per una congrua quantità di tempo, decidendo di pubblicare per la prima volta l'individuazione di queste dodici invarianti nell’architettura costruita della Tomba citata. Questo libro è dunque, in assoluto, il primo sull’argomento, sia dal punto di vista della teoria, sia dal punto di vista della fotografia. Gli autori, conseguentemente e finalmente, dedicano questo loro lavoro a tutti coloro che intendono parlare di architettura. Fatto di grande rilevanza è che le invarianti esistono in Musica, nel Cinema, in Letteratura, e in tutte le altre grandi categorie artistiche. Se gli addetti ai lavori volessero individuare queste invarianti negli altri campi sopraddetti, farebbero certamente opera meritoria. Falanga, oltre che averle individuate nell'Architettura, è stato il primo ad averle descritte direttamente sul suo libro.

Falanga, originale personaggio, ha insegnato nelle Accademie di Belle Arti di Bari e Venezia ed ha pubblicato con vari editori (Adda, Aurelia, Menabò, Armando), numerosi testi ed ha collaborato con chi scrive per i volumi “Baresità e ...maresità”, “Baresità, curiosità e ...”, “San Nicola il dialetto barese e ...” (Levante).


Tra i primi a scoprire e diffondere il jazz a Bari, testimone e diretto protagonista, ha scritto con cognizione di causa anche un secondo libro sul jazz a Bari, ultimo atto d’amore verso la sua città “Il jazz a Bari secondo phalan f.” (Aurelia). Questo testo si divide in tre capitoli: “Quando e come il jazz arrivò a Bari”, “Vent’anni dopo” e “Franz e la musica”, nei quali tratta l’argomento con competenza, tra storia, fatti e curiosità. La premessa è firmata da Anna, Annika, Elena, Gino, Isaac, Karen, Loris e Rosa, tutti amici del cuore di Franz, che insieme al sottoscritto, lo hanno ricordato in una grande “festa” svoltasi, ad un anno dalla scomparsa, a Villacolle (Torre a Mare - Bari), una particolare scuola materna, conosciuta ed apprezzata da Falanga e diretta da Annika De Tullio.

Torniamo ancora sul dialetto barese con il libro “O dadò o dadà”, un argomento che lo intrigava troppo. Il nostro Franz ha diviso il volume in 8 capitoli nel tentativo di recuperare una baresità molto particolare, partendo dalle influenze della storia e della cronaca nel dialetto barese, ma soprattutto tentando di insegnarci come si scrive il dialetto barese attraverso una individuazione ragionata - e non definitiva - delle prime regole di scrittura e di pronuncia.

Il capitolo 3 è dedicato al lessico, ove sono elencati 998 termini dialettali baresi con scritto a fianco lo stesso termine italianizzato, più una rapida traduzione in italiano. Esempio: Ladrecjìedde = Ladricièllo. Giovane ladruncolo. Il capitolo 4 è dedicato alla traduzione dei termini elencati nel lessico, ma con chiarimenti a margine. Esempio: Addùbbie = Anestesia. Stranissima parola di tantissimi anni fa riferita all’anestesia con l’etere. Per estensione, l’addubbio indica anche l’atto di addormentarsi dolcemente a qualche conferenza, concerto o film noioso. Potrebbe tradursi anche in “abbiocco”. Il capitolo 6 è dedicato alla traduzione dei modi di dire, con qualche chiarimento a margine. Il capitolo 8 si occupa di teatralità, barocchismi, ambiguità e di piacevoli usi conseguenti del dialetto barese in cui l’autore sottolinea come “Il dialetto barese è un architettura linguistica nella quale l’insulto o il più modesto rimprovero toccano vertici di rara bellezza”. Nel testo presenta anche “Modi di dire” con la relativa traduzione e spiegazione. Esempio: “Alle pjìede de Chrìste” = Stare ai “piedi di Cristo” significa stare nella miseria più nera. Non è stato dimenticato neanche il passaggio delle armate alleate nel nostro dialetto dal quale abbiamo ereditato parole o modi di dire come, “mafish felùss” (niente denari), arrivata nel nostro dialetto durante la seconda guerra mondiale); “calabùsh” (parola usata dalla malavita e forse proveniente da gattabuia) o, infine, “sciaràpp” (taci). Insomma, Falanga ha tentato un recupero di una baresità molto particolare senza darsi troppe arie, ma scusandosi con coloro che professano la loro intelligenza e professionalità nel campo della glottologia, della dialettologia e della filologia e sembra esserci riuscito molto bene.

Il viaggio in cui si è imbarcato l’autore è finalizzato al recupero e alla rivalutazione dei termini dialettali di Bari, convinto che i dialetti siano un inestimabile tesoro di conoscenza, in considerazione del fatto che ogni parola è talmente carica di plusvalori da essere essa stessa un inesplorato continente. Il tutto condito con un po’ di umorismo che rafforza al massimo l’ottimo lavoro presentato. Non si è risparmiato neanche sul web, creando il forum ‘comanacosaellalde’ sul dialetto barese che egli definiva “nobile”.

Falanga ha scritto di tutto e di più: sull’architettura, sulla comunicazione, il dialetto, il jazz, il Commissario Navarrini e non si è fatto mancare neanche “Bari – Il borgo murattiano 1813-2013” (Adda), il cui testo caratterizza il capoluogo pugliese (vecchio di quasi quattromila anni) perché ha permesso a questa città la rarissima possibilità di avere ben due centri storici conclusi, Bari Vecchia (la città originaria medioevale) e il Borgo Murattiano medesimo. Le straordinarietà di questa inquietante città sono parecchie, tra le quali è citata come esempio la prima New Town in Italia, voluta da Gioacchino Murat nel 1813. In questo libro l’autore parla della scacchiera murattiana di Bari conosciuta meglio con il nome di Borgo Murattiano. Questo Borgo è esemplare perché testimonia con la sua ‘urbatettura’ (architettura urbana) di cosa siano stati capaci e siano ancora capaci di fare sull’organismo Città gli uomini di buona volontà e, ahimè, quelli di cattiva volontà. Per queste ragioni il Borgo Murattiano è un grande libro di storia dell’urbatettura all’aperto consultabile da chi avrà voglia, interesse e, perché no, anche amore e curiosità per questa straordinaria città del Sud.

Secondo l’autore, il Borgo Murattiano è talmente importante da poter essere considerato emblematico dal punto di vista dell’urbatettura. Perché è stata la prima New Town italiana, come detto, nel senso che, a somiglianza di quelle inglesi apparse sulla scena agli inizi degli anni ’40 del secolo scorso, quando stava terminando la seconda Guerra Mondiale, è nata come quartiere dormitorio ed ha poi ospitato in sé le funzioni direzionali e commerciali di una città vera e propria, diventando così una città nuova. Perché ha il privilegio di contenere in sé DUE centri storici ben distinti. Perché, malgrado la speculazione edilizia, ha conservato una sua omogeneità. Perché, come quadrilatero, inteso come scacchiera, non ha avuto inizialmente alcuna periferia finché è restato nei limiti della costa e del tracciato ferroviario. Perché è tuttora un catalogo/museo a cielo aperto di architetture dall’ottocento in poi. Ed infine, perché è un enorme esempio a cielo aperto fruibile da tutti per la sua capacità di comunicare visivamente ai suoi fruitori che cosa è stata capace ed è tuttora capace di fare la speculazione edilizia ottusa, volgare e sorda totalmente alla bellezza.

Pare, secondo Falanga, che tutto ciò possa bastare per fare di Bari un luogo permanente di studio per le future generazioni di architetti, di storici dell’urbatettura e di sociologi della Città. Come si vede, ce n’è per tutti.

Egli ha progettato anche alcuni edifici che sono stati realizzati nella nostra città.

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