Intervista a Gregorio Rucco autore del libro storico 'Novantasei Ore'

MILANO - Gregorio Rucco fa il suo esordio con 'Novantasei ore', (edito per I Libri di Icaro), una perla della letteratura italiana, che racconta la storia di Gregorio, brigadiere di Pubblica Sicurezza che, durante le Quattro giornate di Napoli, è chiamato ad affrontare un dramma personale, mentre attorno a sé la cittadinanza partenopea vive le atrocità dello scontro bellico.

Tra il 27 e il 30 settembre del 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, militari e civili napoletani insorsero contro la Wehrmacht tedesca, liberando la città dall’occupazione nazi-fascista. In un susseguirsi di accadimenti, personaggi e intrighi, la narrazione scorre tambureggiante, con ritmi discorsivi tipici della sceneggiatura cinematografica e snoda con frenetica passione elementi storici e di fantasia: amori che sbocciano, un parente che piomba nel bel mezzo della cospirazione per arruolarsi nelle milizie di Salò, gli accordi con i più influenti intellettuali di Napoli e quelli con i camorristi, l’aiuto disinteressato dei monaci di Camaldoli.

Novantasei ore si pone come un’opera fresca, fuori dagli schemi e dagli stereotipi del romanzo storico, per proporre un modo diverso, personale e sorprendente di raccontare storie del passato. 

Gregorio Rucco è nato a Napoli nel 1967. Attualmente vive in Salento, dove svolge la professione di interior designer. Appassionato di letteratura e storia, musicista autodidatta, amante del calcio, ha sempre coltivato la propria passione per la scrittura, scrivendo racconti brevi, critiche musicali per riviste di settore ed articoli di costume calcistico per testate specializzate. Organizzatore di eventi musicali, conduce e cura un programma radiofonico di divulgazione storico/letteraria musicale di cui è anche autore dei testi. 

Quando e come è nata l’esigenza di scrivere un testo del genere?

In realtà non ho sentito una esigenza specifica per la scrittura di questo romanzo.È stato tutto più o meno spontaneo. In me la necessità di scrivere è sempre esistita, l’ho sempre fatto, fin da ragazzo. Crescendo poi ho dato forma di scrittura compiuta, alle mie altre grandi passioni, la musica ed il calcio. Ho scritto alcuni articoli e recensioni per riviste di settore e poi piccoli racconti, ma mai pubblicati. Il romanzo è stato una scommessa, ci sono voluti due anni per vincere le ritrosie e le mie timidezze ad essere considerato un autore, ed ancora ad oggi non mi sento tale e nutro seri dubbi in merito.

Lei è alla sua opera d’esordio, ma la sua principale professione è quella di interior designer. Quando è nata la passione per la scrittura? Come ha conciliato le numerose passioni che possiede?

Devo ringraziare molto chi ha creduto che quelle pagine accumulate nel tempo, potessero diventare un giorno una vera storia, addirittura un vero e proprio romanzo. La passione per la scrittura come detto, è sempre stata una mia compagna di vita. Essere interior designer è la mia professione, il mio lavoro, ma lo svolgo ancora oggi, dopo circa 30 anni, con la stesso entusiasmo del primo giorno e con il quale approccio tutte i miei altri interessi: la radio, la musica, il calcio. Lavorare o vivere senza passione, non ha senso pe me.

“Novantasei Ore” è un libro dichiaratamente biografico, poiché racconta gli eventi che suo nonno ha vissuto in prima persona. Com’è stato ascoltare i fatti che hanno scosso la Napoli della seconda guerra mondiale? Cosa leggeva negli occhi di suo nonno durante quel racconto?

Oltre ad essere un romanzo biografico, “Novantasei Ore”, nasce con l’intento e la voglia di raccontare e di riportare nella giusta luce un avvenimento fondamentale della storia della città di Napoli e della più ampia storia della Lotta di Resistenza in Italia. Purtroppo io gli occhi di mio nonno non li ho potuti conoscere dal vero. Tutto è stato filtrato dai racconti di mio padre Franco e di mio Zio Ugo, che tra l’altro ha partecipato anche egli, di persona, agli eventi di quei giorni. In passato, esempi notevolissimi sono presenti nella filmografia: “Le Quattro Giornate di Napoli” di Nanni Loy o “Tutti a Casa” di Luigi Comencini. La drammaturgia di Eduardo De Filippo, di “Napoli Milionaria” la letteratura recente di Erri De Luca, tutti riferimenti che ho tenuto da conto, insieme alla storiografia più puntuale su questi eventi. I fatti delle Quattro Giornate però, così come quelli riguardanti la lotta di liberazione dal nazi-fascismo nel Sud Italia, rappresentano ancora in ambito nazionale una storia tutta da raccontare e da svelare. Sono i piccoli protagonisti ed i loro gesti, che fanno la grande storia, da sempre. Nel mio romanzo viene posto l’accento soprattutto su questo aspetto. Ho cercato di dosare nello svolgimento narrativo e nel racconto, questa vitalità, donare credibilità e dignità ai personaggi che la interpretano, indipendentemente in quale fazione essi si trovassero in quei giorni. Ho provato a scrivere e descrivere la storia dalla parte dei protagonisti, tutti, spero di esserci riuscito.

Lei è nato a Napoli ma vive attualmente nel Salento. Il protagonista del suo testo ha fatto proprio il contrario: è nato in Salento e si è trasferito a Napoli. Quali sono le cose che accomunano queste due meravigliose terre? Qual è il ricordo più bello che ha della sua infanzia trascorsa a Napoli?

Il rapporto di interscambio culturale, di amore e di conoscenza tra il mio Salento e la mia Napoli, nella mia famiglia è esistito da sempre, o meglio proprio dal momento in cui mio nonno vi si trasferì. Da quel momento in poi: lui ha sposato prima una napoletana e poi quando questa morì di parto, sposò una salentina che si trasferì a Napoli. Mio padre ha sposato una salentina vivendo poi a Napoli tutta la sua vita insieme a lei. Mia sorella ha sposato un salentino, trasferendosi in quel luogo. Io stesso ho sposato una salentina vivendo i primi anni di matrimonio a Napoli e poi trasferendomi definitivamente in Salento quindici anni fa. Una osmosi continua insomma, ma nulla che abbia cancellato una delle due realtà, anzi queste si sono arricchite fondendosi ed amplificandosi. Sono due materialità culturali completamente diverse tra loro, tutto è diverso ma non meno bello: la luce, i rapporti umani, la cucina, la musica, le tradizioni, pur essendo due realtà del sud del nostro paese. Per me questo rappresenta un vero e proprio paradigma di quello che dovrebbe essere la condivisione, la coabitazione umana, la possibilità di accettare l’altro, il diverso da te, senza anteporre steccati e differenze. In piccolo tutto ciò potrebbe rappresentare una lezione per molti, in tempi in cui nel nostro paese si continuano ad alzare muri. Non più e non soltanto tra Nord e Sud dell’Italia, ma tra i Nord e Sud del mondo. Il ricordo più vivo che ho di Napoli e quello che più mi manca, è l’amicizia adolescenziale, i giochi di strada con i miei amici.

Nel suo libro c’è una forte devozione verso San Gennaro. Quanto è ancora forte questo legame tra il Santo e il popolo partenopeo? È anche lei legato a questa divinità?

Più che di ‘divinità’ io parlerei di culto di San Gennaro, sia per il santo che per l’uomo. Premetto che io sono un non credente, pur essendo stato battezzato, comunicato e cresimato ed avendo vissuto parte della mia vita nell’oratorio della chiesa del rione dove sono nato e cresciuto. La devozione del popolo partenopeo per San Gennaro, è un tratto importantissimo delle sue origini culturali. È da sempre un rapporto uno a uno, un rapporto diretto e non filtrato che il credente o il non credente instaura con lui. La storia di questo santo è molto particolare e singolare. Gennaro è il santo più umano che ci sia, lui non fa distinzione tra un peccatore o un devoto che a lui si rivolge per una grazia, qualsiasi essa sia, basti che questa sia richiesta con animo puro e non comporti nocumento alcuno per nessuno. San Gennaro non è soltanto il protettore della città, non tutti sanno che lui è anche il protettore dei migranti, ed è per questo venerato in tutto il mondo. La cappella del suo imponente tesoro, addirittura più ricco di quello della corona d’Inghilterra, si trova sì all’interno del Duomo di Napoli, ma in territorio del Comune di Napoli e non dello stato pontificio. Un vero e proprio confine materiale divide, all’interno della chiesa, le due entità statuali. Il tesoro è proprietà dei napoletani e non del Papa.

Con San Gennaro il popolo partenopeo, ha stilato un vero e proprio contratto legale e tuttora valido, scritto davanti ad un notaio. Il 13 Gennaio 1527 fu sottoscritto un contratto con tanto di atto notarile fra il popolo napoletano – rappresentato da una Deputazione appositamente costituita – e San Gennaro, nella persona delle sue reliquie. Il contratto, in qualità di diritto, ‘di contratto a prestazioni corrispettive’, prevedeva la liberazione della città dalla peste e dalle altre calamità che affliggevano Napoli. In cambio, i cittadini promettevano la costruzione di una magnifica Cappella senza precedenti. Poi esiste una lettura più profonda e romantica o potremo definire filosofica di questo rapporto tra santo e napoletani, che affonda le radici intimamente nella costante antitesi tra sacro e profano che permea da sempre la cultura partenopea in tutte le sue rappresentazioni. Sì San Gennaro in questa ottica, è anche il mio santo.

Nel libro è ben raccontata la guerra in ogni sua parte: la fame, la distruzione, la morte, l’oppressione. Questi eventi in qualche maniera hanno cambiato Napoli per sempre? In che modo?

Le guerre cambiano i popoli, mutano i confini, modificano le percezioni di tutti quanti coloro che purtroppo ne sono vittime. Fame, distruzione, morte ed oppressione, lasciano segni indelebili nel tessuto culturale, sociale e umano così come in quello urbanistico di qualsiasi popolo o luogo che ne venga travolto. Indipendentemente dal momento storico in cui accade. Le immagini della devastazione della Napoli post bellica, la città più bombardata d’Europa insieme a Dresda, non credo siano molto diverse dalle immagini che purtroppo oggi vediamo di alcune città dell’Ucraina o di Gaza. È proprio questo l’orrore più inaccettabile della guerra, entrare in maniera sempre uguale e sempre così assurdamente violenta nella vita delle esseri umani, come me o come lei, trasfigurandola in maniera indelebile. I segni poi possono sparire con il tempo, le città possono certo essere ricostruite, ma le cicatrici restano magari meno visibili. Forse un romanzo come il mio, può servire proprio a questo, a far sì che quelle cicatrici non scompaiano del tutto, con una operazione di chirurgia plastica della storia, e che la loro memoria possa essere ancora da monito per il futuro.

La sua scrittura ben si presta ad un respiro cinematografico. Le piacerebbe che il suo libro diventasse un film?

La ringrazio per questa domanda. Effettivamente moltissimi che hanno letto “Novantasei Ore”, hanno notato e suggerito questa peculiarità narrativa del romanzo. Non posso negare che la cosa mi faccia molto piacere, le confesso che non è stato un espediente, ma una naturale inclinazione. Raccontare la storia come fosse un film, senza cedere alla fiction, alle volte può avvicinare chi non conosce questi eventi o le nuove generazioni, alla consapevolezza dei fatti storici che altrimenti rimarrebbero nell’oblio. Utilizzare un linguaggio diretto, volutamente popolare, fatto di dialoghi veloci, quasi cinematografici o teatrali, da sceneggiatura, può essere la chiave per arrivare direttamente al punto. Come detto prima, esistono già dei capolavori cinematografici che trattano delle “Quattro Giornate di Napoli”. Da qui a passare alla realizzazione di un film però ne corre. Chissà? Sognare non costa nulla.

Qual è l’episodio che suo nonno le ha raccontato che l’ha maggiormente scosso? Perché?

È sicuramente l’episodio che descrivo in alcune pagine del libro, dell’agguato che mio nonno, ed altri resistenti di Materdei tesero alle truppe della Wermacht in vicolo Trone. Un vicolo stretto e lungo in salita e che insiste proprio a ridosso del muro del giardino dove Gregorio viveva con la famiglia e dove poi dopo ha vissuto mio padre con la sua e dove sono nate le mie sorelle ed io. Un coraggio inaudito, ingenuo e allo stesso tempo temerario. Una barricata improvvisata con un’automobile di traverso, reti, materassi comodini, pochi fucili e qualche pistola, la gente che sparava dai balconi e dalle finestre dei palazzi e che lanciava pietre, perdendo anche la vita. Gregorio era abituato al comando e all’uso delle armi, era un brigadiere ed un fuciliere scelto delle Guardie Regie, sapeva cosa fare, gli altri no, erano gente comune, vecchi, ragazzi appena adolescenti, impiegati, salumieri, macellai, idraulici, muratori, tassisti, donne e madri di famiglia. L’episodio che mi ha maggiormente scosso e che descrivo nel romanzo è stato sicuramente quello nel quale un ragazzo appena adolescente viene falciato da un colpo di fucile proprio davanti ai suoi occhi. Come quel ragazzo, tanti altri purtroppo in quei giorni, donne, uomini, anziani, il popolo insomma, patì, la morte, i ferimenti, gli arresti o le angherie della guerra. Più di tutto quello che però mi sciocca ancora oggi a volte, è trovarmi a camminare nei luoghi della mia città dove avvennero quei fatti e calarmi mentalmente negli stessi posti nel settembre del ‘43. Mi sembra di sentire ancora gli spari, le grida, le paure.

Nel libro la distanza tra le varie istituzioni si azzera: la giustizia sembra infatti formare un sodalizio in extremis con la camorra locale per un bene superiore. Tutto ciò è vero simile o è solo un’espediente letterario?

Vorrei chiarire questo aspetto. In quei giorni a Napoli avvenne un piccolo miracolo. Forse fu proprio San Gennaro, o semplicemente l’uomo. Napoli è stata la prima grande città europea, ad insorgere in armi da sola, senza l’aiuto degli alleati e non disponendo di militari di carriera se non pochi carabinieri, poliziotti o chi nell’esercito era rimasto fedele al Re. Tutti uniti contro le più potenti ed organizzate forze armate tedesche della Wermacht e dei militari della Milizia fascista. Questo è accaduto, Napoli con il suo popolo, con la sua gente, con le persone comuni come ho detto prima. Ho piacere a citare un grandissimo autore al proposito, Erri De Luca, che nel suo bellissimo romanzo ‘Il giorno prima della felicità’ dice:

«Le persone quando diventano popolo fanno impressione. Così arriva una mattina, una domenica di fine settembre, finalmente piove e sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dello stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta. Se mi chiudevo le orecchie, lo sentivo più forte. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta...». Ed un popolo quando dice basta lo dice compatto, non facendo accordi preventivi tra chi ha condotto una vita retta, o una vita criminale. Lo fa e basta. Non si è trattato di un accordo sottobanco tra legalità e criminalità, non c’è verosimiglianza o espediente letterario, c’è la lotta per la Libertà, la propria vita e la sopravvivenza, un bene superiore, proprio come dice lei.

Dalla sua biografia si evince un forte attaccamento alla letteratura. Qual è in assoluto il suo libro preferito? Cosa le ha insegnato?

Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia, dove la letteratura e la lettura erano un bene necessario e primario. Devo a mio padre il fatto di avermi introdotto alla lettura fin da bambino. In casa avevamo una libreria dalla quale poter pescare a piacimento tra enciclopedie, atlanti e poi libri, tanti libri, di ogni tipo e di ogni genere: Romanzi, saggi, narrativa, cronache, libri importanti o semplici raccolte del Reader's Digest. Il mio libro preferito? Difficile da dire, tanti, tantissimi forse i primi tre che lessi: Emilio Salgari “I misteri della jungla nera”, Jack London “Il richiamo della foresta” e Rudyard Kipling “Capitani Coraggiosi”. Mi hanno insegnato a viaggiare con la mente pur restando in una cameretta 4x3 con finestra sulla città, una città del sud Italia, e a sognare provando a restare, poi in seguito, sempre il ragazzino che ero quando avevo quelle pagine fra le mani.

 “Novantasei Ore” è la sua opera prima. Ha altri libri nel cassetto? 

Sì, sto provando a mettere giù e raccontare un’altra storia, o meglio altre storie, ma voglio prendermi il mio tempo come sempre. È questa sì una storia autobiografica in continuità con il mio passato. Racconterà della Napoli che io ho vissuto tra gli anni ’70 e gli anni ’90, un periodo di fondamentali cambiamenti culturali per la mia città e non solo, per l’Italia tutta forse, un epoca di disillusione. Il titolo c’è già ed è poco letterario, lo so. Sembra più il titolo di un film di Lina Wertmüller che quello di un libro: “Credevo che tutto fosse davvero a portata di mano”, ma niente spoiler ovviamente.

Di cosa le piacerebbe scrivere in futuro?

Vorrei scrivere una storia sul mare, sui mari grandi e piccoli, sulle loro vastità e diversità. Sui viaggi e l’epica degli uomini di mare, dei pescatori, degli emigranti e dei migranti. Della gente comune che li solca per i più svariati motivi e di tutti quelli che considerano i mari delle vie di comunicazione, delle strade da poter percorrere liberamente, non delle barriere insormontabili e letali.

Per info: https://icarolibri.com/rucco-novantasei-ore.html

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