Quel posto dell'anima chiamato Macondo

di Ilaria Stefanelli - Per questa Pasqua è prevista pioggia e per parecchi giorni. A Macondo piovve per 4 anni, 11 mesi e 2 giorni consecutivi.

Macondo, quel paese inventato dal maestro Gabriel García Márquez, appena scomparso, che si è piantato nelle nostre anime.

Sarà una pioggia ancora più triste stavolta, e un venerdì santo ancora più triste senza di te, genio gentile.

Quando ti si leggeva, caro Gabo, scattava un patto: “Ti credo anche se (anzi proprio perché) stai consapevolmente raccontando balle. Perché sono balle bellissime. E sia, abbiamo creduto anche al diluvio del tuo capolavoro più grande,Cent’Anni di solitudine.

Forse sta in questo tuo raccontare, il segreto del realismo magico che ti è valso il Nobel nell’82’. E in tanti si credeva pure che nella famiglia Buendía di Cent’anni di solitudine fosse nato un bambino con la coda di maiale. I Buendìa… con quelle generazioni che passavano e si moltiplicavano in un tempo incerto e da fiaba. Pure sono piantati nell’anima.

Del resto lo dichiaravi, Gabo: vivevi per raccontarla. L’avevi detto anche nel titolo dell’autobiografia del 2002. E ce la raccontavi benissimo, tra magia e sintesi. Mica si nasce a caso da una veggente e un telegrafista.

Ti bastava la prima frase del romanzo per farci firmare subito il patto, al buio.

«MOLTI ANNI DOPO, DI FRONTE AL PLOTONE DI ESECUZIONE, IL COLONNELLO AURELIANO BUENDÍA SI SAREBBE RICORDATO DI QUEL REMOTO POMERIGGIO IN CUI SUO PADRE LO AVEVA CONDOTTO A CONOSCERE IL GHIACCIO» (Cent’anni di solitudine 1967).

Con quel “colonnello”, un po’ Bolívar, un po’ Castro, tuo amico carissimo. Perché la passione per la politica ti ha accompagnato sempre.

Da giornalista, nei tuoi capolavori, nella tua lotta ostinata contro la ferocia di Pinochet in Cile, nel tuo proporti come mediatore di pace tra governo, narcotrafficanti e guerriglia marxista delle Farc nella tua Colombia. Nel tuo altrettanto ostinato insegnare giornalismo ai ragazzi di Cartagena.

«IL GIORNO CHE L’AVREBBERO UCCISO, SANTIAGO NASAR SI ALZÒ ALLE 5,30 DEL MATTINO PER ANDARE AD ASPETTARE IL BATTELLO CON CUI ARRIVAVA IL VESCOVO» (Cronaca di una morte annunciata 1981).
«ERA INEVITABILE: L’ODORE DELLE MANDORLE AMARE GLI RICORDAVA SEMPRE IL DESTINO DEGLI AMORI CONTRASTATI» (L’amore ai tempi del colera 1985).

«L’ANNO DEI MIEI NOVANT’ANNI DECISI DI REGALARMI UNA NOTTE D’AMORE FOLLE CON UN’ADOLESCENTE VERGINE» (Memoria delle mie puttane tristi 2004).

Iniziavi a raccontarla così quella volta. Esagerando come sempre: a quel giornalista novantenne bastava dormire immobile accanto alla ragazza.

I tuoi ultimi anni scivolavano con più fatica rispetto a quel tuo ultimo personaggio. L’Alzheimer, trapelato senza conferme “ufficiali”, era uno scherzo troppo atroce della vita.

Ripenso alle altre notti in cui mi sono trovata quest’anno a scrivere di una parte di me, di noi, di una generazione intera, che se ne andava. Da Enzo Jannacci a Lou Reed fino a Nelson Mandela. E ci metto anche Philip Seymour Hoffman, più giovane, stesso calore trasmesso nell’anima.

Il tuo svanire lo sento più degli altri come la (inevitabile) perdita di una parte grande di me.
Come nel più classico dei tuoi romanzi, ti avevano dato già morto nel 2000 dopo il tumore linfatico che ti aveva colpito l’anno prima. Uscì pure un coccodrillo a salve, addirittura con firma tua, come lettera di commiato.
Non la prendesti bene: «Quello che potrebbe uccidermi è che qualcuno creda che io abbia scritto una cosa così kitsch. È la sola cosa che mi preoccupa».

Immaginarti ferito in quella mente straordinaria che aveva partorito magia, poesia e impegno, duole di uno spasmo acuto. Saranno le tue frasi che mi sono rimessa a spulciare. I ricordi del mio leggerti, negli anni
Sai, come scrivevi nel Mare del tempo perduto, anch’io ho “sentito dire che la gente non muore quando deve, ma quando vuole”. Addio mio colonnello.

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