Il Sud disperato costretto a rubare "La Santa"

dal nostro inviato Francesco Greco.
ROMA - L'avessero saputo, che Santa Vittoria protegge i contadini, forse non avrebbero rubato la sua statua in chiesa. Profanando non solo un luogo sacro ma anche una cultura, un'identità, un'appartenenza, una memoria e scatenando una "guerra" antropologica. In cui la caccia ai "cani rabbiosi" è dichiarata da una collettività in blocco: donne, vecchi, bambini.
   Un Sud in bilico fra oleografia e rabbie giovanili, marginali, con scantonamento nel folklore quanto basta per tracciare un topòs culturale: muretti di pietre a secco, ulivi secolari, luminarie, facce scure di sole, l'immancabile "dicono..." della gente. E' quello del brindisino Cosimo Alemà ne "La Santa", in concorso al Festival del Cinema di Roma. Subito un particolare curioso: abbiamo assistito, oggi, alla seconda proiezione: non c'è stato un applauso. I colleghi ci dicono che forse alla prima...
   Il film è bello, ben girato, bellissima la fotografia, Gianna Nannini traccia la colonna sonora ("Scegli me"). Location giuste: un Sud 2.0 a più strati, il vecchio e il nuovo, il passato e il presente. Un Sud bello, selvaggio, creativo, dall'anima antica e profonda, dove i ricchi arrivano da tutto il mondo e si fermano comprando le masserie e i poveri invece devono scappare per sfuggire a un destino di precarietà illimitata. Dove i figli che hanno studiato per non fare il mestiere dei padri non riescono a trovare una strada, e comunque non vogliono ereditare il lavoro dei genitori, tracciando così una frattura generazionale, una ferita nello scorrere del tempo, una sciarada dura a essere spiegata. Intanto si immergono in un'attesa senza confini, la vita passa e per noia o per un pò di reddito devono muoversi al confine, off limits dai codici della civiltà codificata.
   Come accade alla banda di quattro emarginati (2 fratelli) che giungono in un paese del Mezzogiorno solidificato nel tempo, con i suoi riti e miti, per partecipare alla processione della santa patrona, in realtà per rubare la statua della santa colma di preziosi che sta sull'altare e che nessuno del paese tocca. Un Sud carnale, appassionato, fatto di piste di coca e seni opulenti, sesso selvaggio, animalesco, vecchie case umide e falesia rossa di cave abbandonate.
   Altro particolare curioso: la caccia all'uomo va avanti senza tregua e non si vede un carabiniere: il Sud è abbandonato a se stesso, ai suoi istinti peggiori, alla legge della foresta. Cupa metafora di Alemà, che peraltro smentisce il luogo comune per cui per avere successo un film deve far lavorare le star, come se il Neorealismo non avesse insegnato nulla. Le sue facce, alcune delle quali absolute beginners, funzionano benissimo.
   Un luogo a tratti spettrale, svuotato, cupo, triste, metafisico come una piazza di De Chirico. Ma anche un luogo di finzioni: a rubare la statua per darsi una possibilità, non ci avevano pensato solo i quattro balordi attesi da una triste fine, ma anche due donne: una 40enne parcheggiata da 7 anni nella vecchia casa della nonna da un uomo sposato che promette di abbandonare moglie e figli e una ragazza skizzata che vuole andarsene dal paese.  
   Nel film riconosciamo tre attori salentini: Ippolito Chiarello (Corsano, Lecce), che fa Santino, il fornaio disilluso ma dal gran cuore che nasconde uno dei braccati (quello sposato) regalandogli un pasticciotto leccese e le pucce e indicandogli la via per porsi in salvo, Tommaso Giuranno (di Racale, Lecce: uno dei cacciatori appostato nei campi dietro un muretto di pietre) e Donato Chiarello (Corsano), che sul tetto della casa di fronte alla chiesa uccide uno dei disperati, Agostino, che si stava confidando col prete, don Paolo, dopo un lunga elucubrazione mistica con le ragazzine e le suore tenute in ostaggio. Grande Salento, grandi interpreti. Ci hanno fatto venire la pelle d'oca...

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