A Lecce 'Pane nostro'


di FRANCESCO GRECO - CASTIGLIONE D'OTRANTO (LE) - “L'hannu misu a pane jancu” (di qualcuno in fin di vita il cui ultimo desiderio era un morso di pane bianco).
 
Ode a Demetra alle 7 della sera, quando il sole illanguidisce i suoi raggi accarezzando con un riflesso dorato i capelli dei bambini, qui alla “Curteddhra” (piccola corte dove si ricoverava il gregge), nel Vivaio della Biodiversità, tra cespugli di sulvie (nespole germaniche) e ulivi secolari, i cartelli sparsi ovunque “Zona non avvelenata” e le cicale zittite dall'evento.
 
Si entra pudici come in una cattedrale gotica o il Tempio di Re Salomone. Con gesti sapienti, solenni, il giovane fornaio prepara l'impasto nato da un miscuglio di grani locali (Senatore Cappelli, Timilia, Gentilrosso, Scorsonera, su 10 ettari di terra marginale, dimentcata, rubata alla selva e all'oblio, avuti in comodato d'uso) macinati in un mulino a pietra di Amatrice che rinasce. “E' un miscuglio internazionale realizzato dall'Associazione Marina Serra che Angelo Chiuri ci ha  donato”, osserva contento Gigi Schiavano, agronomo, guru dei cereali, un Dante che ci guiderà per tutta la sera.
Col lievito-madre (u lavàtu), magicamente prendono corpo pani, pizze, pucce con le olive, i pomodori, le zucchine, frise (il pane inventato dai Greci nostri antenati, detto anche dei pastori e dei marinai). Il forno in pietra leccese è pronto, la temperatura è giusta: non resta che spingere dentro i pani con la pala e aspettare. Qui la fretta è nemica, abbiamo spento il cellulare: siamo venuti per vivere e goderci lentamente un momento storico, ma anche a ritrovare noi stessi.
 
“U pane è maru” (Il pane è amaro).

E' il “Venerdì dell'Orto” e il silenzio avvolge la folla, caldo e rassicurante come l'abbraccio materno. Quel silenzio grave, quasi materiale, che tradisce lo spessore di un evento e che trovi in certe piccole chiese di campagna, o che doveva esserci nei templi di Athena quando in questi sentieri si aggiravano Archita e Aristosseno.

L'odore del pane che cuoce lentamente e s'indora ci inonda di una gioia arcaica e arcana: il mistero del pane è antico quanto l'uomo, eppure ogni volta nuovo, diverso, denso di un pathos che si rinnova: un miracolo che sorprende, commuove e unisce chi lo vive impregnandolo di dolce energia cosmica, abitanti dello stesso Universo, plancton degli abissi marini e delle stesse remote galassie.
 
“Cu lu pane de l'otri no te bbinchi mai” (Col pane altrui non ti sazi mai).

Il primo forno di comunità (50 kg) di Terra d'Otranto, realizzato dai magnifici ragazzi della “Casa delle AgricUlture Tullia e Gino” (il volontariato più bello e creativo, sognatori con le mani callose) apre la bocca e ci regala i suoi doni come la cornucopia di un dio buono e generoso, che vive e soffre con l'uomo. Momento magico, sottolineato da un applauso. C'è chi si commuove, una lacrima brilla sul viso di qualcuno altro e se l'asciuga con un gesto lento della mano. Solo chi sa che il pane è stata una conquista, quanta fatica e dolore ci vogliono per portarlo a casa ai suoi figli può capire.

A leggerla bene, è una data fortemente simbolica: i tre forni pubblici di Castiglione chiusero 40 anni fa, causa emigrazione: i proprietari ti levavano le ossa di dosso per una “pignata” di piselli “crudei” (non cottoi). Ora i figli di quegli emigranti, che hanno studiato grazie ai loro duri sacrifici, li riaprono. Ci si riappropria di un'identità negata, si ricompone una memoria lacerata, una storia atomizzata, lo storytelling delle nostre radici di cui ci facevano vergognare.

Avviso ai demagoghi e i miserabili d'ogni sorta: l'esproprio culturale non ha vinto, la formattazione dei valori e del nostro dna è fallita, il passato rivive nel bambino che mangia il suo pane, assapora ogni boccone, il pane del padre e del padre di suo padre che domani procurerà ai suoi figli: il pane nostro.
 
“Strinci farina quannu a mattra è china, ca quannu u funnu pare, non te giova u cavatare” (Risparmia la farina quando la madia è piena, quando scarseggerà non ti servirà risparmiare).
 
Altro momento solenne: tra gli ulivi, accanto alla bocca del forno, il suo tepore sensuale, il passaggio di conoscenza fra le generazioni, importante al tempo dell'afasia del cuore, la lingua, i sentimenti dettata dalla morbosità e il feticismo della tv spazzatura che stasera tace coi suoi mèntori e le “signorine".

Le madri del gruppo “Auser Ponte Andrano-Castiglione”, sollecitate da Isidoro Colluto, raccontano come si faceva il pane un tempo, nel cuore del Novecento, in quel mondo contadino che pulsa nel nostro sangue: una ritualità densa di religiosità. I piccoli ascoltano attenti, rapiti: un seme inavvertitamente finirà nel loro cuore.
 
Cominciava nel cuore della notte di cristallo, la luce fioca, la madia, l'impasto, il lievito-madre, “Cummare Bbunnanzia, tempra!” urlava il fornaio scivolando come un'ombra nel buio, bussando all'uscio di casa, le coperte a coprire i pani che non dovevano costipare, il fornaio che dopo un po' ripassava col carretto a prenderli (“Zì Cuncetta mòvete ca è tardu!”), il segno (una lettera, la b o la c per chi l'aveva imparata a scuola, uno qualunque per chi non c'era andato) per distinguerli dagli altri durante la cottura, il costo, ecc.
 
In certi forni (Galugnano, Montesardo, ecc.) il “particolare” lasciava una pagnotta “per l'anima dei Morti”: tanti chiedevano la carità. Ma il pane lascia tracce anche nella koinè dei toponimi: la nomea della gente di Montesardo, dove c'è una secolare tradizione di panificazione, è “Manciafucazze”.
 
“U ranu è porcu” (Il grano cresce ovunque).

In attesa della “Notte Verde” (6a edizione, in rete associazioni da tutto il mondo: Salento Km 0, Fattorie Sociali, Celacanto, Lua, Città Fertile, Sac Porta d'Oriente, Pollicini Verdi, Federcanapa, Free Home University con ragazzi provenienti da Svezia, Messico, Cuba, Spagna, Olanda, Francia, Russia, Colombia, USA, Venezuela, Brasile, Canada), il grano è anche poesia: Leopardi, Garcìa-Lorca, Seneca, l'omaggio alla dea del frumento e dell'abbondanza nei “Versi omerici” (V secolo a. C.) e i contemporanei: “Non uccidete il mare/ la libellula, il vento...” (Giorgio Caproni); “Se non stai attento/ ti cresce tra le dita, lungo i marciapiedi, tra le gambe... “ (Rolf Jacobes, poeta norvegese).
 
“T'aggiu datu pane pe curteddu...” (Ti ho dato pane per il coltello).

E infine, “tribute” alla dea Demetra che con le canzoni cool e le chitarre di Donato Lupiccio, Giorgio Cardigliano e Roberto Vantaggiato danza sotto gli ulivi contaminando mondi, culture, sensibilità, appartenenze, etnie: neri e bianchi, europei da Bruxelles (testimonial dell'UE che vorremmo) e mediterranei, vecchi e giovani, bambini con gli occhi colmi di luce e ragazzi con l'orecchino e la coda, intellettuali e muratori, piccolo borghesi e precari della vita, single e uomini con quattro figli, ecc.

In attesa dei lavori del mulino di comunità, in autunno (prossimo step), si farà un regolamento per la gestione del forno che già riceve ordinazioni (chi scrive vorrebbe lo scontrino numero 1), corsi per figure professionali specializzate e una campagna per promuovere il lievito-madre.
 
La rivoluzione dolce nel nome di Gea. nel cuore antico e nobile del Mediterraneo, prosegue sempre più ricca di idee e valori condivisi, in cui tutti possono riconoscersi: una rivoluzione plurale, che rimodula la socialità e il costume, l'economia e il recupero dei topoi del nostro passato migliore, il silenzio della terra, il suo cuore più profondo. Le zolle risuonano di voci gentili e gaie, di risate, gravide di profumi, una tavolozza di colori deliranti e folli e i piedi di chi le calpesta hanno colori, storie, culture diverse che si arricchiscono reciprocamente. Una rivoluzione dallo sguardo polisemico, che si trasfigura in una filosofia di vita: niente veleni nella terra, valorizzazione dei frutti minori, potenzialità della canapa, dei mestieri di ieri, rilettura dell'emigrazione anche come riconoscenza ai padri, senza scordare la sua nocività (asbestosi), approccio diverso, inclusivo all'immigrazione sul territorio: il tutto con una valenza negli audiovisivi (Mexapya e Meditfilm, sigle indie, autoproducono storie su questi temi).
 
E' l'immortale anima contadina di una terra che ritrova la sua identità, dignità, che cerca il reddito, che coniuga la zappa coi pixel, la poca acqua e la siccità con l'attesa del pane che cuoce, Omero con Carmelo Bene, briganti, gechi e scazzamurredhi, emigranti e migranti.
 
“Pane, scorsa o muddica, u segretu de casa no se dica” (Pane, scorza o mollica, mai dire il segreto della tua casa).
 
E' notte quando, seduti sulle balle di paglia umida, sazi dei dolci frutti che ci regalano (prugne e melone), pregni dell'odor di campagna che ci respira intorno e di pane nostro. Sazi e coscienti che nessuno ce lo potrà togliere, lo difenderemo col corpo e l'anima, sapendo che è una conquista inalienabile e definitiva, costata sangue, sudore e lacrime dei nostri infaticabili, fantastici avi, che nell'empireo dove s'aggirano sorrideranno contenti.
 
“E' meiu pane nivuru a casa tua ca pane jancu a casa all'otri” (Meglio pane nero a casa tua che pane bianco a casa degli altri).  
 
Hola Gea! Goodbye Demetra! Un po' di riposo farà bene anche a voi...                                  

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