Cinema: l'eterna guerra fra signori e cafoni. Parla il regista Davide Barletti


di FRANCESCO GRECO - LECCE. Lotta di classe a Mezzogiorno. Ieri e oggi, il tema è sempre uno: potere al popolo. Ci si batte per l’acqua, la terra, il cielo, un’esile speranza, un’idea vaga di futuro da possedere, un sogno ingenuo e antico, un’utopia nobile e preziosa.

Si scavano le pietre arse dal sole per mettere a dimora un piccolo seme, la fame è la malattia più diffusa e terribile, gli uomini lottano per una po’ di pane e di dignità.
 
E’ l’idea originale attorno cui il regista pugliese Davide Barletti ha intrecciato il suo ultimo film, che firma con Lorenzo Conte “La guerra dei cafoni”, un’opera tenera e struggente, innocente e paradossale, un sacco poetica, aspra, ma anche, o soprattutto, politicamente scorretta, di quelle che nessuno mai passerebbe in prima serata in tv, meglio la camomilla di don Matteo e i talent come corrompono gli animi e illudono milioni di ragazzi che pensano di farcela zampettando (danza è una parola grossa) davanti a giurie di poveracci che si atteggiano un sacco.
 
Presentata tempo fa nella deliziosa location della Torre cinquecentesca di Salignano, con lo stesso regista, e poi Biagino Bleve, la regista Giorgia Cecere (i deliziosi “Il primo incarico” e “Un posto bellissimo”, terzo film in progress), Alfredo De Giuseppe, altro regista di culto, l’assessore Mina De Maria, il consigliere del Comune di Castrignano Roberto Calabrese. 
 
Il film ha un suo magnetismo segreto, ti tiene avvinto sino all’ultimo fotogramma: è cosparso di allegorie, di richiami e citazioni politiche, provocatorie in un tempo in cui ci vantiamo di essere deideologizzati, messaggi subliminali o più marcati.
 
Il dialetto usato da Barletti è “contaminato” e dirompente, e non è una  mera provocazione intellettuale sterile e autoriale, al contrario, con la sua ricchezza e asprezza, segna e pervade antropologicamente tutta la storia collocandola in un Sud all’apparenza immobile, in un luogo metafisico, un non-luogo (per dirla con Marc Augè), Torrematta, dove avviene lo scontro fra due bande di ragazzini separati culturalmente e ideologicamente da abissi, da una diversa percezione del reale e della vita. Gli attori recitano se stessi, parlano una koinè che si ribella al dominio e all’omologazione, recitano d’istinto, senza alcuna grazia accademica e per questo quel che dicono ci fa l’effetto di salutare pugno sui denti. 
 
Con Claudio Santamaria e Fabrizio Saccomanno ragazzini presi dalla strada, senza malizia alcuna, esperienza da set: sono forza pura e maieutica che rimanda al Neorealismo (Sciuscià, Ladri di biciclette, Roma città aperta, ecc.). Ciò dà maggiore luce e una forza magica alla storia.

E chi da borgata pasoliniana, da cinema neorealista, “La guerra dei cafoni” è un film che ti colpisce alla bocca dello stomaco. Non da tv nel XXV anno dell’éra berlusconiana, del degrado culturale e la barbarie dell’anima, dove si sparge melassa, bromuro, spazzatura, fetish: un seme insulso e sterile che ha abbrutito la società e noi stessi che ci siamo costretti dentro.

DOMANDA: Il flipper colloca la storia che lei racconta nei Settanta, segnati dallo scontro di classe, che poi sconfinò nel terrorismo?
RISPOSTA: “Il film prova a rileggere in modo originale un’epoca ormai stereotipata: gli anni Settanta non sono solo pantaloni a zampa d’elefante e telegiornali d’epoca che parlano del sequestro Moro, ma un abito mentale che faceva degli italiani (perfino dei piccoli, marginali italiani di questo film) delle persone diverse da quelle di oggi, con un sistema di valori e con un’idea dei rapporti personali e sociali assai specifica.
Il nostro lavoro elabora gli anni Settanta proprio in questi termini: psicologici e culturali, molto più che folkloristici e nostalgici”.

D. L’uso del dialetto dà più forza e vigore alla storia: pensa che la lingua italiana non avrebbe toccato tale vetta?
R. “I diversi dialetti presenti nel film costruiscono una vera e propria polifonia, un flusso inarrestabile che sicuramente dona allo spettatore un qualcosa che lo avvicina alla realtà più vera.
C’è però una ragione ben precisa nell’uso così marcato del dialetto, ovvero che nessuno dei ragazzi protagonisti della pellicola è un attore, era la cosa più naturale farli esprimere nel loro dialetto di origine.
I ragazzi avevano già un compito arduo, ovvero quello di confrontarsi con una sceneggiatura, con dei testi da noi scritti. Durante le prove, abbiamo capito insieme che il parlare in dialetto era la cosa più naturale per loro”.

D. I capi delle fazioni in lotta si innamorano delle donne che non sono della loro appartenenza sociale: è il motivo per cui la rivoluzione fallisce?
R. “Più che parlare di rivoluzione, parlerei in questo film di trasformazione, attraverso le rocambolesche avventure dei protagonisti si assiste a un gioco di rimandi, alla trasformazione di un Paese: cambiamento tanto più potente quanto più è affidato a dei ragazzini lontani dalla Storia, ma in procinto di passare, proprio come l’Italia degli anni Settanta, da una fase all’altra della propria vita.
Sicuramente le presenze femminili hanno un ruolo fondamentale nelle dinamiche interne allo sviluppo della drammaturgia del film, anche se da due lati completamente opposti dichiarano che la guerra è una prerogativa totalmente maschile”.

D. Rivoluzione abortita, l’immaginazione al potere è rinviata: oggi quella spinta escatologica si è persa, nessuna guerra, solo confusione e smarrimento identitario… 
R. “Il tema dell’ identità o della sua eterna ricerca è un tema interessante, che sicuramente è alla base del film. La guerra dei cafoni a prima vista è un classico romanzo di formazione, ma c’è un elemento che lo rende, a mio avviso, più interessante dei classici e inimitabili film e romanzi di riferimento: la prospettiva questa volta è ribaltata!
Provo a spiegarmi meglio.
Di solito, nei classici romanzi di formazione i protagonisti partono, nell’arco narrativo, da una situazione in cui la loro identità non è definita, sarà con lo svolgersi del racconto che capiranno qual è il loro posto nella società, e così il loro passaggio alla vita adulta sarà completo.
Il romanzo di Carlo D’Amicis fa esattamente l’operazione inversa, ovvero, parte da una situazione dove i nostri protagonisti hanno ben chiaro qual è il loro posto nella vita, qual è il loro ruolo sociale, chi ha tutto e chi ha niente: “Loro da una parte e noi dall’altra”, così parla il capo dei Signori.
Questa sicurezza man mano si sfalderà, e come in un gioco di specchi porterà i nostri ragazzi di fronte al baratro della ricerca di un nuovo posto nella società, posto che dovrà inserirsi in uno scenario mutato e che è totalmente sommerso dal progredire della Storia del nostro Paese e della società contemporanea”.

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