I dialetti? Un patrimonio da salvare

di VITTORIO POLITO - I dialetti, com’è noto, rappresentano gli idiomi di determinate comunità, caratterizzati dall’uso in ristretti ambiti geografici, diffusi lungo l’arco della penisola e rappresentano un inestimabile patrimonio linguistico da salvaguardare e diffondere per conservarli nell’ambito delle realtà regionali, senza dimenticare che essi fanno parte della storia e delle tradizioni.

La differenza fra l’italiano e i tanti dialetti? Secondo gli esperti, nessuna. Dal punto di vista linguistico, i dialetti hanno le loro regole e le loro parole, proprio come la lingua, la differenza sta nella storia. L’italiano stesso era un dialetto, un dialetto toscano che “ha fatto carriera”, diffondendosi attraverso la letteratura.

In una trasmissione TV di qualche tempo fa, alcuni esperti affermavano che il dialetto di Dante, il fiorentino, ha avuto più successo di quello di Petrarca e Boccaccio, diventando dapprima la lingua degli scrittori e poi quella degli italiani. In sostanza gli esperti asserivano che “i dialetti non possono sostituire l’italiano, che è la lingua nazionale, ma non sono lingue da buttar via: sono una ricchezza in più. Molte parole dei dialetti oggi sono diventate italiane a tutti gli effetti. ‘Panettone’ e ‘risotto’ vengono dal milanese, ‘grissino’ viene dal piemontese, ‘mozzarella’ dal napoletano,‘vestaglia’, ‘gondola’, e perfino ‘ciao’ vengono dal dialetto di Venezia. Eppure, oggi, chi direbbe mai che queste parole non sono italiane?”

«Nel corso dell’800 fu invece Manzoni a proporre la diffusione del fiorentino colto per cercare di raggiungere l’unità linguistica nella Penisola: i suoi ‘Promessi Sposi’ sono il frutto di una lunga elaborazione, durata oltre vent’anni e fatta di correzioni e ripensamenti, soprattutto linguistici. Dopo l’Unità d’Italia fu l’opera di alfabetizzazione a diffondere l’italiano standard da Nord a Sud, ma ancora nella prima metà del secolo scorso, durante un ipotetico incontro, un contadino del sud e un operaio del nord si sarebbero difficilmente capiti. Nella seconda metà del secolo invece fu essenziale l’opera svolta dai mezzi di comunicazione: la cosiddetta ‘paleotelevisione’, termine coniato dallo scrittore Pierpaolo Pasolini per distinguere la fase statale dell’emissione televisiva italiana dalla successiva fase commerciale, fu fondamentale nella diffusione di una lingua unitaria per tutta la penisola. I suoi programmi, dagli intenti volutamente educativi, riuscirono a diffondere un senso di “italianità” tanto a Nord quanto a Sud; grazie a loro la lingua ufficiale assorbì gli influssi di alcuni fra i dialetti più diffusi, fra cui il napoletano di Totò e il romanesco di Sordi» (Alice Martinelli).

Per Carla Marcato, docente di Linguistica Italiana, “L’Italia è un paese di eccezionale varietà linguistica, cui contribuiscono l’italiano standard (con le sue diverse colorazioni regionali), i dialetti e le minoranze linguistiche”.

E oggi come stanno le cose? Secondo Luca Serianni (già docente di “Storia della lingua italiana” alla “’Sapienza’ di Roma), e Lucilla Pizzoli (docente di “Linguistica Italiana” all’Università per gli studi internazionali di Roma - UNINT), in una recente pubblicazione (Storia illustrata della lingua italiana – Carocci Editore), affermano che “I dialetti restringono a poco a poco il loro ambito d’uso, arrivando sul finire del secolo a trovarsi in posizione marginale nella comunicazione. Eppure, è proprio il pieno predominio dell’italiano da parte della stragrande maggioranza della popolazione a rendere possibile il rilancio di un nuovo uso del dialetto, visto ora non più come il registro inevitabile di chi non sa usare l’italiano, ma come quello di chi, ormai pienamente italianizzato, lo usa consapevolmente per dare espressività e autenticità al proprio discorso”.

Merita anche un cenno il dialetto barese con le importanti testimonianze presenti in specifiche pubblicazioni (poesia, poemi, racconti storici, teatro, commedie, ecc.), di Francesco Saverio Abbrescia, Gaetano Savelli, Giuseppe De Benedictis, Vitantonio Di Cagno, Alfredo Giovine, Gaetano Granieri, Giovanni Panza, Vito De Fano, Giuseppe Capriati, Vito Barracano, Vito Maurogiovanni, Domenico Triggiani, Onofrio Gonnella, Agnese Palummo, Lorenzo Gentile, Arturo Santoro, Vito Carofiglio, Marcello Catinella, ed ancora più recentemente, Felice Alloggio, Luigi Canonico, Enzo Migliardi, Pino Gioia, Emanuele Battista, Peppino Zaccaro e tantissimi altri. Solo per citarne qualcuno, dal momento che l’elenco sarebbe troppo lungo.

Secondo Pasquale Sorrenti (1927-2003), poeta, scrittore, giornalista, autodidatta, è stato anche titolare a Bari di una libreria dal 1947 al 1993, “Il dialetto è un linguaggio vivo, sentito, e quello che più spesso tiene a mantenersi puro”.

Secondo chi scrive, il dialetto, lingua sorella dell’italiano, rappresenta un patrimonio, non solo come strumento di comunicazione, di cultura e di esaltazione della parola, ma anche di tradizioni, usi, costumi, poesia, cucina, proverbi e soprannomi e quindi da insegnare ai giovani. Il dialetto è anche una forma di linguaggio verbale più immediata e nello stesso tempo più sofisticata, in quanto riesce ad imprimere quel tanto di drammatizzazione al nostro parlare, funzionando l’espressione dialettale come efficace rafforzamento del nostro eloquio. Infine, è un mezzo linguistico ricco di importanti contenuti storici, etici ed identitari di chi ci ha preceduti, e quindi di noi stessi, per cui si rende necessario salvaguardarlo, parlarlo e diffonderlo ai posteri.

E, per rimanere in tema, mi piace riportare una poesia del grande poeta e scrittore dialettale Giovanni Panza (1916-1994), barese doc, laureato in Giurisprudenza, fondò e diresse nel 1948 il settimanale satirico-sportivo “L’Arciere”. “La checine de nononne – U mangià de li barise d’aiire e de iosce” (Schena, 1982), rappresenta il suo best seller ed è tuttora disponibile nelle librerie.


U Dialette
di Giovanni Panza

L’amore per il linguaggio avito con il quale si possono esprimere anche i più riposti sentimenti

Percè scrìveche ’ndialette?
Pe prisce e pe dilette;
acquanne tenghe da chendà
ccose viicchie da recherdà

jind’o core tanne senghe
tutte le ccose ca tenghe:
recuerde a mè chiù ccare,
bedde cose, patem’amare;

la passata giovendùte
le speranze ca ssò perdute,
l’amore granne pe le figghie,
la malingonì ca me pigghie

acquanne penze ca non ghiù
che mè stonne; ca nù e dù
remanute sime a nvecchià
p’aspettà de scirne ddà.

Quanne le penziiere brutte
e la mende mènene tutte e
me vòlene assagrà*
e me fàscene male assà

sop’a la carte me mètteche
e tanne me permètteche
de chendarte le fessarì
come u sàcceche fa ji.
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* Assalire
Da “Cazzavune” di G. Panza, Schena Editore, Fasano (Br) 1984, 2a Edizione, p. 147.

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