Foyer di Fornello. Focolare per ritrovar Dio in una comunione di battezzati


di ROBERTO BERLOCO - Altamura. Ad una brancata di miglia dall’abitato di Altamura, lungo l’arteria Provinciale che lo collega a Santeramo in Colle, sorge un ampio complesso parrocchiale. E’ quello di San Sabino, il canonizzato originario di Canosa di Puglia cui è dedicata la chiesa che ne occupa la zona centrale. Anche se, andrebbe precisato, esso va più comunemente noto col nome di Fornello, vale a dire lo stesso che la toponomastica attribuisce alla frazione nel quale si trova.

Esso si staglia lungo un vasto pianoro, insolito per un paesaggio collinare come quello murgiano, fra campi arati e fattorie, a un tiro di schioppo dal ben più noto giacimento di Cava Pontrelli, dove il passaggio di bestie preistoriche fa parlare ancora di sé a distanza d’ottanta milioni di anni.

Malgrado una certa importanza delle architetture che lo compongono, il suo apparire in mezzo a quel tratto di campagna testimone d’un interminabile susseguirsi di stagioni, risulta assai discreto, quasi di tutto il vestito volesse passare per una fodera interna, o d’un cielo d’Estate come la stella più remota.

Mentre poi, dopo aver virato dalla Provinciale, si manovra per farci ingresso attraverso il battente sempre aperto d’una staccionata di legno che serve da recinzione, non potrà finire inosservata una monumentale croce che s’erge a ridosso di questa. Tutt’intorno ai suoi piedi, un’aiuola sopraelevata dal livello stradale sembra come voler marcare una specie di distinzione assestante per questo simbolo fondamentale della Cristianità.

Ad un occhio più attento, ancora non sfuggirà l’arredo d’una pietra, posta a basamento della solenne insegna, sulla quale sta scolpita l’iscrizione “Anno Santo 1974”.

Essa sta lì a ricordare il periodo nel quale venne eretta per volontà di Don Paolo Colonna, secondo parroco della chiesa di San Sabino dopo Don Oronzo Simone, ma testimone fin dalla sua edificazione, avvenuta sul confine degli anni ’60, per sovvenire alle esigenze delle famiglie, soprattutto d’agricoltori e d’allevatori, sparse nell’ampio territorio circostante. Anche se, in realtà, un primo nucleo di parrocchia era già esistente da circa vent’anni, con la medesima dedicazione e con sede nel dongione medievale sorgente tre chilometri oltre, sempre costeggiando la direttrice per Santeramo.

L’anno che si commemora sulla lapide è denominato Santo poiché a partire dalla fine di esso e, poi, per tutto il successivo, vale a dire il 1975, venne celebrato il venticinquesimo Giubileo dell’era cattolica. Nel suo corso verranno proclamati tredici Beati e sei Santi da Papa Paolo VI, il quale si spingerà a baciare i piedi del Metropolita di Calcedonia Melitone, in segno della volontà di riconciliazione della Chiesa di Roma con la sfera ortodossa del Cristianesimo.

A Fornello il sacro edificio dedicato a San Sabino è il luogo deputato alle celebrazioni eucaristiche. Ma non si tratta dell’unico. Collegata ad esso, infatti, quasi si nasconde una minuscola cappella, alla quale s’accede attraverso un corridoio interno che parte proprio dalla sala delle liturgie. Essa è intitolata ad onore di Don Tonino Bello, durante la vita terrena Vescovo di Molfetta, e tra le personalità più pie e significative che l’ecclesia pugliese abbia conosciuto negli ultimi torni d’evo moderno.

Di fronte alla facciata della chiesa s’apre uno capiente spiazzo rettangolare, con alcune panchine in ferro rivestite di tinte vivaci, dislocate con criterio lungo i suoi bordi. Intorno ad esse, qua e là, alcuni giuochi per i fanciulli lasciano intendere come, anche in un posto come questo, all’età più tenera non venga negato il momento della gioia, quasi alla maniera di un’eco di quello riservato agli adulti, sia pure d’una risma assai più matura e profonda, attraverso i momenti di condivisione fraterna della fede in Cristo.

Un muretto ad incavi separa poi quest’ambiente all’aperto da un altro, più arretrato alla vista esterna, completo d’un giardino nel suo mezzo e sul quale, fedelmente sempre al perimetro d’un rettangolo, s’affacciano le abitazioni di chi risiede in questo luogo e quelle di chi ci viene col rango d’ospite.

E già, poiché è questo anche l’alveo fisico dove la diocesi locale esprime una delle proprie accoglienze più organizzate, qualora vi sia necessità d’un ritiro spirituale che impegni più d’un giorno e, dunque, abbisogni della comodità d’un letto e di tutto quanto necessario ad un albergo dignitoso.

Ed ecco anche perché non è un caso che,  proprio qui, abbia dimora uno dei settantasei Foyers de Charitè distribuiti nel pianeta.

“Fino al Natale del 1993, quando cioè mi sono insediato” - racconta Don Saverio Colonna, successore di Don Paolo nella titolarità pastorale di San Sabino - “qui a Fornello avvenivano soprattutto incontri di breve durata e campi scuola estivi. Nel tempo, con il mio gruppo di collaboratori, abbiamo domandato al Signore cosa poter fare di gradito a Lui e di utile per la comunità altamurana.

E il Signore ci rispose, illuminandoci. D’un tratto, infatti, comprendemmo di poter aiutare quei giovani che intendessero uscire dall’afflizione della tossicodipendenza. Inizialmente si trattò solamente d’un ragazzo, che accogliemmo come si fa con un figlio smarrito ma ritrovato. Poco dopo, però, a costui se ne aggiunsero altri, con la conseguenza che l’insieme dei residenti andò nutrendosi sensibilmente.

In contemporanea s’accrebbe anche il numero di volontari che, oltre a coadiuvarmi nell’azione di recupero di questa gioventù sfortunata, crearono una comunione naturalmente ispirata ai principi evangelici. Fu a questo punto e in questo modo, che nacque l’idea del Foyer”.

I primi Foyers de Lumiere, Charitè et Amour (Case o Focolari di Luce, Carità e Amore) - questa la definizione completa - furono fondati in Francia, nella prima metà del secolo scorso, dall’abate Georges Finet assieme alla mistica e propria figlia spirituale Marthe Robin, proclamata Venerabile da Papa Francesco in epoca recente. Il primo in ordine di tempo e d’importanza storica è stato quello di Châteauneuf de Galaure, nel dipartimento della Drome, svoltosi dal sette al tredici di Settembre del 1936.

Finet amava definire i Foyers come “comunità di battezzati che, sull’esempio dei primi cristiani, mettono in comune i loro beni materiali, intellettuali e spirituali, con l’impegno di realizzare la famiglia di Dio sulla Terra, con Maria per Madre e sotto la guida di un sacerdote”.

La finalità di questi particolari esercizi che, comunque, hanno principalmente nella Robin il vitale fulcro carismatico, consiste nel ravvivare il fuoco della fede, irrobustendone il calore dentro l’animo di chi v’aderisce, nel contesto di un’atmosfera mariana e secondo quella che è stata chiamata una “Nuova Pentecoste d’Amore”. Scopo è, insomma, di ritrovare e portare ad emersione, per ciascuno che vi partecipi, il senso più autentico e consapevole di rinati nella Verità della Salvezza, donata da Dio attraverso il proprio Figliuolo Unigenito. Obiettivo di riflesso quello d’una provvidenziale opera di evangelizzazione che abbia come perno la testimonianza, portata a maturazione e resa poi nel vivo del quotidiano, dell’essere gioiosamente in Cristo.

“Con lo sviluppo del Foyer” - riprende Don Saverio - “acquistammo coscienza che il nostro agire avrebbe dovuto essere proteso a liberare non solo dalla dipendenza degli stupefacenti, ma pure da quella di tutto ciò impedisce all’uomo di riconoscere la bellezza della propria dignità creaturale. Per questo il nostro apostolato si concretizza principalmente nel proporre episodi di rifugio dello spirito, aperti a tutti, consistenti in una settimana di denso silenzio attraverso cui è possibile meditare, discernere e rigenerarsi interiormente, avviando una rinascita personale”.

E, in effetti, tra le doti naturali di Fornello v’è proprio il silenzio. Quel “beato silenzio che dà tanta pace all’anima”, come proclamava Santa Teresa di Lisieux.

E ve n’è così in abbondanza, che pare potersene nutrire in piena vece del solito cibo per il corpo, mentre a garantire che non corra pericolo di esser infranto, sembra quasi contribuire la piccola scultura d’una Madonna che, contornata da un rigoglioso fogliame d’edera, spunta all’interno d’un anfratto ben riparato dell’area, in fondo ad una sorta di patio che corre dietro una parete laterale della chiesa.

Si tratta della Vergine ritratta nelle apparizioni di Lourdes, per giunta posata assai vicino ad un’altra statuina, nelle sembianze d’una devota che se ne sta in ginocchio poco sotto di lei, una giovanissima pastorella che le cronache conosceranno con il nome di Bernadette Soubirous.

“I giorni trascorsi presso di noi non significano riempire di contenuti la testa” - torna a dire di nuovo Don Saverio -  “bensì, soprattutto, fare l’esperienza di un amore, il più grande che vi sia, ossia quello d’Iddio che si rivela attraverso Cristo. Ora, nulla più del silenzio assoluto può consentire d’aver percezione di tanto straordinario amore. Cristo ci manifesta quest’ultimo in mille modi, ma noi siamo distratti e non lo cogliamo. Il silenzio ci aiuta nel prendere cognizione di esso, che si rivela a noi attraverso sia la magnificenza del creato, sia il calore delle persone che ci amano, sia le scritture bibliche.

Nel silenzio, inoltre, possiamo più facilmente scoprire la preghiera che ci è latente dentro. Una preghiera spontanea perché c’è già, pulsante nel cuore di chi crede come di chi non crede. La giornata è scandita, dunque, anche da fasi di prece, individuale o comunitaria, ai quali s’affiancano mirate attività di catechesi e situazioni di gaia convivialità come la mensa, che assume un tono molto familiare”.

Ma il compito del silenzio è agevolato anche da una serie di note che confermano ulteriormente la specialità della struttura di Fornello. Una, ad esempio, è data dai suoi angoli che, per un attimo, se vissuti da vicino, paiono scomporsi da tutto ciò che li circonda, assumendo un significato in grado d’aggiogare l’occhio dell’anima, per poi, un attimo subito appresso, come in un girandola di luci, ricomporsi con tutto il resto alla maniera di particolari d’un arazzo, forse umile per i materiali adoperati, ma ricco e prezioso per la divina ispirazione che ne ha guidato il cucito.

Un’altra ancora è rappresentata da un fenomeno singolare, ma abbastanza consueto nei luoghi benedetti. Anche quando il sito è privo dei propri dimoranti abituali, una presenza benefica sembra impregnare di sé gli spazi e l’aria stessa che vi si respira, che sia giorno oppure notte, che sia inverno oppure estate. Cosicchè parrebbe di mai esser abbandonati alla solitudine e di vedere la sosta avuta qui trovare una collocazione felice nella memoria.

“Naturalmente” - chiosa il reverendo Colonna - “continua l’accoglienza di fratelli più sfortunati, afflitti dalla schiavitù non solo delle droghe, ma pure di altri mali tipici dei nostri tempi, come il sesso ad esempio. Differentemente da quanto accadeva in passato, però, alla consulenza dell’ascolto segue oggi quello d’indirizzamento all’aiuto più specifico che può provenire da altri centri vocati”.

Dunque un solido punto di riferimento umano e di fare cristiano, dove “il sacerdote è a capo, ma ogni decisione è sempre assunta con la comunità. Infatti Gesù aveva detto a Marthe Robin, riferendosi a Padre Finet: ti farò conoscere un  prete, questi non potrà fare nulla senza di te e tu non potrai fare nulla senza di lui. Tale dettato viene considerato ancor oggi come la Magna Carta d’ogni Foyer, con la conseguenza d’una sua impostazione assai comunionale”.

Insieme a Finet, la mistica francese rappresenta la testata d’angolo di questi amorevoli Focolari. La sua impronta di fondatrice rimane intatta e riluce di sé a distanza di decenni da quelli in cui visse, da eroina del principio della carità, ch’ella seppe mirabilmente interpretare con la testimonianza della propria stessa esistenza. Una trascorsa in gran parte distesa sopra un letto, a causa d’una encefalite che, progressivamente, la privò della facoltà dei movimenti, eppure di continuo intensa ed ampollante di quel respiro d’amore che il Divin Maestro mai le fece mancare in petto.

“La Robin ebbe anche un’altra potente intuizione” - ricorda ancora Don Saverio - “ovverosia di dover iniziare la propria opera con una proposta pedagogica. In una regione molto scristianizzata della Francia, dove un funerale su due riceveva esequie religiose, con una forte consistenza massonica e un radicato anticlericalismo, ella volle profeticamente ideare di dar vita ad una scuola, che negli anni è cresciuta ed oggi è l’istituto cattolico più grande del Paese d’Oltralpe. Oggi, nelle sue aule, che sono a Chateauneuf, ogni classe di scolari prega per uno dei Foyers che puntellano il globo.

Da questo dato si ricava quanto grande sia stata anche la rilevanza data ai bambini che, per via della purezza del loro cuore, sono considerati addirittura come soggetto di missione. La loro invocazione è cioè considerata addirittura più potente di quella degli adulti”.

Ma che il carisma di Marthe Robin traspaia da ogni pagina della storia che vivifica l’identità e le consuetudini odierne dei Foyers, affiora con una tale lampante chiarezza che, difficilmente accade, appreso il suo nome per la prima volta, poi non s’avverta un prepotente trascinamento a cercarne l’immagine e, dopo averla trovata, si possa evitare di scorgervi quella d’una creatura totalmente abbondonata al superiore amore del Creatore.

E’, d’altronde, quel senso di Signore della Vita ch’ella afferra, sente, vive e poi comunica come Signore d’Amore, a tradurre la singolarità della sua santa persona, premiata financo dal dono sovrannaturale delle stimmate ad un tratto della propria esistenza.

“Vorrei trovarmi in ogni luogo contemporaneamente” - ella diceva - “per dire e ridire al mondo intero quanto Dio è buono, quanto Egli ami gli uomini, quanto si mostri affettuoso e compassionevole per ciascuno dei suoi figli”.

Che questo desiderio sia stato esaudito dopo il suo trapasso, avvenuto nel 1981, all’umanità di oggi non è dato di saperlo, anche se forse qualcosa trapela da quelle certe sensazioni d’una entità viva e buona che sembra abitare le pertinenze di Fornello anche quando non vi sia nessuno. Quasi che questa, come le altre sedi di Foyers, sia divenuta una porzione stessa dell’anima ormai sublimata d’una donna che, in vita, malgrado non potesse, volle in Dio e, alla fine, poté più di tanti che avrebbero potuto.
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