Baresi «C’era una volta Bari» di Nicola Mascellaro… c’è ancora

di LIVALCA - Pensavo di saperne abbastanza sulla vita dello scienziato bolognese Guglielmo Marconi - quello conosciuto in tutto il mondo come l’inventore della radio - fin quando, in una notte insonne, ho deciso di leggermi l’ultimo libro del prolifico responsabile dell’Archivio di Documentazione dei Servizi Tecnici della Gazzetta del Mezzogiorno. Nicola Mascellaro è un distinto signore che porta ‘tinteggiati’ sul volto i segni peculiari del luogo che gli ha dato i natali, quella cittadina Gravina in Puglia che, fatto raro ma non isolato, appartenne per quasi 4 secoli alla famiglia degli Orsini tra il 1400 e il 1800.

Onde evitare che anche Nicola passi fra i ‘nemici’ - ultimamente pensavo di rendere omaggio ad alcuni amici di Liceo servendomi dell’ironia e di quella saggezza che ci ha fatto affrontare il ’68 non per distruggere, ma per migliorare, nell’interesse comune, i difetti di ‘casta’, invece i risultati ottenuti mi hanno ‘amareggiato’ perché io non sono per ‘omnia tempus habent’ - mi affretto a precisare che mi riferisco alla forra (gravina nel dialetto gravinese), quel burrone prodotto da frane o meglio fossato, a pareti ripide, scavato dall’erosione, che, in sostanza, fa del Nostro un uomo abituato alle difficoltà, che invece di ingigantirle, non solo vi convive, ma trae spunto per esaltarle con pensieri, parole e libri. Il suo volto, insomma, una ‘finestra’ sempre aperta, che non teme ‘la resa dei conti’ e parte ‘ dal borgo per giungere alla città’ e finalmente ‘andare al cinema’.

Torniamo al libro di Nicola Mascellaro, il cui titolo è più accattivante di tanti proclami che vogliono esporre in maniera intelligente e invece si fermano sulla soglia dell’incomunicabilità, «C’era una volta Bari», edito dalla LB edizoni di Luigi Bramato - al cui illustre genitore Fulvio regalai un consiglio giudizioso e che il tempo consacrerà vincente - che ci restituisce quel sano orgoglio che ci faceva considerare fortunati per il semplice fatto di nascere nel regno della regina incontrastata di Puglia.

Su Marconi il secolo scorso ho scritto un articolo in cui lo si considerava, se non proprio il fondatore, uno degli iniziatori delle ‘multinazionali’ perché, ottenuto il 7 luglio 1897 il brevetto 12030 per la telegrafia senza fili, si rifiutò di vendere l’invenzione ad un gruppo estero, ma fondò la Wireless Signal Limited a Londra di cui possedeva il 51%; negli anni successivi creò società in tutto il mondo e quando nel 1909 gli fu assegnato il Nobel per la fisica ex aequo con Ferdinand Braun accettò a malincuore la condivisione (Anche in questo caso si trattò di una manovra politica tedesca che integrò il sistema Braun-Siemens e accorpò società per salvaguardare gli interessi nazionali e contenere l’espansionismo dell’Italiano Marconi…a cui fu conteso anche un Nobel che ‘strameritava’ in maniera singola).

Racconta Mascellaro che un Marconi appena ventenne scrisse al ministro delle Poste e Telegrafi, Lacava, per avere dei finanziamenti per proseguire i suoi studi ed esperimenti ( ringraziamo il Padreterno che lo ha fatto nascere benestante !) e la risposta, mai arrivata (cosa ancora oggi di prassi, salvo che ci sia un ’santo’ che interceda !) contiene una chicca annotata sullo stesso foglio : ‘alla Lungara’… che era la via sede del manicomio.

A Giovanni Giolitti, che in quegli anni ‘imperava’ e di cui nessuno vuole mettere in discussione la famosa “età giolittiana”, viene attribuita una frase che non è un esempio di grande patriottismo: «Governare gl’italiani non è impossibile, ma inutile» e non a caso il nostro Gaetano Salvemini - uno nato a Molfetta che vince una cattedra di Storia Moderna a Messina e qui, nel terremoto del 1908, perde la moglie e cinque figli, non può essere considerato baciato dalla sorte - qualche polemica la fece contestando la corruzione in atto e sollevando una ‘questione meridionale’, non ancora…’estinta’.

Mascellaro parlando dell’inaugurazione del Piccinni nel 1854 ci regala una notizia di gossip - di cui non ho trovato traccia, ma questo probabilmente perché non sono ‘ferrato’ in argomento - che ci fa credere che il teatro poteva essere intitolato alla moglie di Ferdinando II, ma poi si rientrò nei ranghi.

Altra ‘stranezza’ anni dopo l’approvazione del progetto per la costruzione del Politeama di proprietà di Antonio Petruzzelli, che vedeva l’ingegnere Angelo Cicciomessere progettista; professionista che era stato rimosso dall’incarico di capo ufficio tecnico comunale con delibera di Giunta. Un lustro dopo il progettista cambia cognome e diventa Angelo Messeni. Il libro è una continua esposizione di notizie gratificanti per Bari: il maestro Puccini in trionfo per la sua Manon, non dimentica di rendere omaggio ad un grande direttore barese, Enrico Annoscia, quello chiamato affettuosamente ‘Pupe de Zzucchere’( In uscita, a breve, un volume del noto poliedrico compositore e maestro Vitaliano Iannuzzi dedicato ad Annoscia, con notevoli riscontri storici).

Altra splendida ‘rarità’ del libro riguarda Armando Perotti, che definire cantastorie di Puglia è riduttivo, il quale era figlio di un colonnello del Genio e di una signora nata a Polignano, la cui famiglia aveva nobili origini napoletane. Il padre di Perotti, proprio in virtù di questo incarico, si trovò a gestire nel 1869 il ‘pericoloso sovversivo’ Giuseppe Mazzini, affidato alla sua responsabilità personale. Il comandante Perotti, militare ma di grande apertura mentale, cercò di rendere più confortevole il soggiorno di Mazzini, ma tanto zelo lo portò ad esporsi e a poco più di anni 50 venne collocato a riposo con il grado di maggiore generale.

Perotti padre, nonostante fosse nato a Ivrea, era molto legato alla terra in cui aveva conosciuto la giovane moglie e, quindi, con il figlio Armando, di appena dieci anni, decise di tornare a Bari (Ora una riflessione andrebbe fatta su come parta da molto lontano il nostro debito pubblico, ma già ci pensa il ‘grillo parlante’ che ha capito che siamo un paese in cui lo ‘spettacolo’ conta più delle eventuali parole, per cui ‘non decet’…). Uno dei capitoli più interessanti del libro è quello dedicato alla mitica ‘Donna Wanda’ che ho imparato a conoscere attraverso i racconti che mi faceva Vito Maurogiovanni. La signora Wanda Bruschi sposò a soli 23 anni un amico del fratello e, quindi, divenne Wanda Gorjux Bruschi; donna di notevole cultura, giornalista che di solito firmava i suoi articoli su settimanali femminili con vari pseudonimi - ‘Medusa’, ‘ Madam Récamier’ e altri - era anche impegnata nella vita di società, ma non disdegnava il sociale.

La signora è stata per tante donne dell’epoca un punto di riferimento per impegno verso gli umili e gli ultimi e il suo zelo per la costruzione del Centro di Assistenza Materna è stato esemplare; poi vi è la sua adesione al Regime su cui non mi sento in grado di esprimere giudizi e non certo perché come diceva qualcuno ‘eravamo tutti balilla’. Solo leggendo Mascellaro ho scoperto che quando Maurogiovanni mi diceva sono stato in via Crisanzio a trovare ‘Donna Wanda’ si riferiva alla casa che ha visto la signora abitarci per 33 anni fino alla sua morte nel 1976.

Ho appreso anche che l’amico Nicola Roncone, cui negli anni ho regalato tanti libri a titolo personale e anche per i suoi amici, ha pubblicato un libro dedicato al prof. Francesco Babudri che non dico mi sarebbe piaciuto recensire, ma almeno…’vedere’. Io sull’amicizia la penso come Buttafava: «L’amicizia è prima di tutto libertà. Libertà di parlare, di confidarsi, di svelare i segreti più meschini o angosciosi, di chiedere aiuto, di abbandonarsi , di litigare». Poi ‘abusus non tollit usus’, per cui non posso essere tuo amico e anche tuo…adulatore.

Detto ciò il libro di Mascellaro è prezioso perché non lo ha scritto un giornalista, ma un uomo che vuol documentare alcuni passaggi storici importanti della sua città e consegnare «alle nuove generazioni uno strumento essenziale per conoscere avvenimenti e protagonisti di Bari», come afferma, con legittimo orgoglio, l’editore del libro.

«Allàsse ca so de Bbare» ( questo il grido del pescatore morso dal granchio) e «Pèse cchiù la penne ca la zappe» (questo il grido del leggendario direttore Aurelio Papandrea ai giovani giornalisti in erba, Beppe Lopez compreso, che ‘faticavano’ a redigere I loro articoli).
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