C’era una volta 'Mamma Pòvala', la mammana di Depressa

di FRANCESCO GRECO - DEPRESSA (LE) – C’era una volta la “mammana” di Depressa, si chiamava Paola De Iaco, ma per il paese era semplicemente “Mamma Pòvala”. Tutti le volevano bene, perché, nella sua attività durata più di mezzo secolo, aveva fatto nascere centinaia di bambini. E mentre tagliava il cordone ombelicale della puerpera, ne nasceva un altro con la sua famiglia, che cominciava a chiamarla “cummare” (comare), e l’avrebbe fatto per tutta la vita (con tutto il paese) come segno di rispetto e riconoscenza.

Era nata il 16 dicembre del 1896 e se n’è andata il 28 aprile del 1969. Messa così, appare una normale cronaca cittadina di un paese del Sud italiano nell’altro secolo.

La notizia invece sta nel fatto che il Comune di Tricase, riconoscendo l’enorme importanza sociale della mitica figura della “mammana”, anche o soprattutto al tempo delle culle vuote o quasi, con una decisione molto intelligente, l’ha onorata intitolandole una via di Depressa (nella foto di Aldo Mastria).

Ora aspettiamo che lo facciano anche altri Comuni, incluso quello di Alessano con la signora Maria Antonietta Leone, di Montesardo con “cummare” Barbara Caloro, “Massara” Tora, ecc.

E dunque il rito della nascita, nel Sud contadino, era quasi avvolto da un alone di magia (ne scrisse anche l’antropologo Ernesto De Martino in “Sud e magia”) e la pittura rinascimentale ne ha fatto un soggetto ricorrente, dal Botticelli al Tiepolo. La protettrice delle donne incinte era Sant’Anna, nell’Europa continentale Santa Lutgarda.

Se la stanza della partoriente era interdetta agli uomini, considerata un gineceo esclusivo delle donne che lo custodivano gelosamente, allora le “mammane” (in Nicaragua la chiamano “partera” e la partoriente espone il neonato alla luna come segno beneaugurante e la placenta si seppellisce fra le radici di un albero) erano le protagoniste principali del venire al mondo, viste con rispetto e deferenza, trattate come delle aguste vestali: lavoravano senza requie, essendo la natalità, al suo tempo, assai alta: 7-8 figli in media, anche di più, spesso uno all’anno.

“Donna Pòvala” aveva appreso l’arte dalla suocera Addolorata, ma se n’è andata con lei, poiché delle discendenti nessuna ha voluto impararla, anche perché oggi si partorisce in ospedale e molta di quella ritualità si è dissolta.

Fortunatamente, la nipote, professoressa Maria Mafalda Ciardo (insegna ad Alessano, vive a Tiggiano), ha ricostruito, in uno splendido saggio pubblicato anni fa dalla prestigiosa rivista trimestrale “Apulia” edita dalla Banca Popolare Sud Puglia di Matino (Lecce), che vide fra i tanti suoi illustri collaboratori Aldo Bello e Nello Wrona, quel mondo, i suoi miti e riti, le curiosità, le superstizioni, gli aneddoti, con una apprezzata ricerca sul campo: oltre ai racconti della nonna, ha intervistando le “mammane” del circondario.

Riassumerlo qui non serve, non rende la forza evocativa e magica del racconto attraverso la narrazione della professoressa. Che non solo spiega la dinamica del parto (chi c’era nella stanza della puerpera, come si fasciava il nascente, quando si ricorreva al cesareo, cosa mangiava la madre dopo il parto, come la “mammana” veniva pagata, ecc.), ma si sofferma anche su altri aspetti della maternità, fra cui la “vita negata”, come avvenivano gli aborti (sempre nel Sud dell’altro secolo), sulla maternità non voluta che provocava l’infanticidio o l’affidamento del neonato alla “ruota” (ce n’erano a Tricase e a Lecce) istituita nel 1802 sotto il Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie.

 Un mondo ricco di sentimento e di pathos, in cui il dolore era sopportato con più forza: a San Dana, per dire, si narra la storia di quella contadina gravida che si alzava e andava all’uliveto, colta dalle doglie, tornava a casa, partoriva, affidava il bimbo alla vecchia madre e tornava a finire la giornata.

Una storia che andrebbe raccontata ai teorici dell’aborto e alle ragazze che vogliono restare single o, se si sposano, egoisticamente scelgono di non avere figli. Le aspetta una vecchiaia amara e solitaria. 
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