Riforme tributarie e fisco a Bari: notizie storiche e curiosità


VITTORIO POLITO - La sezione dell’amministrazione statale che si occupa dell’imposizione o della riscossione delle imposte viene definita “fisco”. Ai tempi dell’Impero romano, il settore dell’agricoltura prevaleva nell’economia, poiché costituiva quasi il totale dei terreni pubblici. Solo successivamente la proprietà pubblica si identifica con le terre di proprietà del re o dell’imperatore.

È soltanto verso la fine del Medioevo che con l’espressione ‘fisco’ si intendeva comprendere le più diverse forme di esazioni finanziarie operate da tutte quelle autorità pubbliche che disponevano del potere di richiederle.

Oggi, come è noto, con questo concetto si intende fare riferimento, in via generale, al sistema fiscale che finanzia il bilancio pubblico. E poiché, nei bilanci pubblici di oggi, le entrate di tipo patrimoniale sono ben poca cosa rispetto alle altre entrate, con il termine ‘fisco’, si fa riferimento al complesso del prelievo operato con il sistema delle imposte, delle tasse e dei contributi sociali. Non a caso ai nostri giorni con il termine ‘pressione fiscale’ si intende il rapporto percentuale che, in un dato anno solare, si può calcolare tra il gettito complessivo di imposte, tasse e contributi e il prodotto interno lordo.

La Riforma Tributaria, invece, altro non è che la manovra o complesso di azioni di modifica al sistema fiscale, effettuato al fine di adeguare la raccolta del gettito tributario al mutato contesto economico, giuridico o sociale.

A Bari che succedeva? Ci viene in aiuto lo storico Vito Antonio Melchiorre (1922-2010), con il suo “Storie di Bari” (Adda Editore).

Nel 1842 la nostra città, popolata da 30.000 abitanti, doveva versare nelle casse dell’Erario determinate somme quale presunto gettito del dazio sul macinato ed invece di applicare la tassa di 13 grana a “tomolo” (antica unità di misura di capacità per aridi in uso nell’Italia meridionale prima dell’adozione del sistema metrico decimale), imponeva quella di 20 per completare l’allestimento del Cimitero e per lastricare le strade dissestate. Ma allo scopo di ricavare un maggior introito, il tributo in questione si applicava non sul macinato, ma sulla cottura del pane, dal momento che 50 rotoli di grano fruttavano 62 rotoli di pane. Non solo, ma si doveva corrispondere anche la “giumella”, altro balzello imposto “sul quantitativo dei generi commestibili contenuto nel cavo delle due mani all’atto delle operazioni di compravendita”, oltre al dazio sulle merci estratte dal porto. Si doveva corrispondere anche il cosiddetto “scannaggio” (tassa sulle carni macellate), oltre ai dazi previsti sul consumo del vino, delle carni, ecc.

Per questi motivi i cittadini non mancavano di protestare ed il Decurionato decise di riportare la tassa sul macinato a 13 grana e la differenza (7 grana), a carico dell’industria della lavorazione della pasta. Ritenne, inoltre, di aumentare il dazio sul consumo del vino da 11 a 15 carlini a botte, riducendo del 7% quello sul mosto, addossando ogni aggravio ai soli 8 venditori della città.

In aggiunta a queste misure il Decurionato, istituì anche un dazio di 25 grana a “cantaio” (antica misura di peso, equivalente per lo più a kg 80 circa), sull’olio e sul mosto introdotto in città o nel suo territorio. La decisione scaturiva in ossequio al volere del re, che aveva disposto di far costruire un nuovo porto “confacente alle necessità del commercio barese”.
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