L’abito e l’uniforme nel periodo murattiano


VITTORIO POLITO - Qualche lustro fa a Bari, il Museo Civico (diretto da Paola Bibbò), l’Accademia di Belle Arti (diretta da Mario Colonna) e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Bari (assessore Nicola Laforgia), organizzarono la prima mostra dell’Abito Aristocratico e l’Uniforme Popolare nel Periodo Murattiano, finalizzata a favorire ed incrementare la cooperazione con le realtà di studio legate al territorio, per facilitare il rapporto di scambio e di crescita istruttiva ed evidenziare l’importanza del nostro patrimonio culturale.

L’abito, inteso come modo di vestire (abito della Domenica, delle feste, da lavoro, militare, ecclesiastico, da sera, di nozze, da cerimonia, ecc.), è legato alla storia dell’umanità e la mostra è stata “raccontata”, dopo una ricerca storica dalla prof.ssa Rita Faure (docente della stessa Accademia), e dai suoi allievi, fornendo un’idea di come si vestivano le donne pugliesi tra il 1700 e la metà del 1800.


La mostra, dedicata allo studio del periodo murattiano, ha analizzato le differenze tra l’abito aristocratico e quello popolare, studiandone non solo fogge e materiali, ma anche la persistenza dei modelli relativi a momenti storici riconducibili alla vasta e consolidata tradizione locale.

Scrive Rita Faure sul catalogo della Mostra: «L’abito con i caratteri del proprio tempo rivela la storia, sottolinea la posizione sociale e l’appartenenza, si adatta ai tempi mutando e dichiarando le sue funzioni. Si assoggetta ai colori e alla qualità dei tessuti, soddisfa le sembianze estetiche, accomuna e differenzia, vincola e separa ma sempre rappresenta la persona che lo indossa. La gamma dei colori aveva delle terminologie altrettanto particolari, come il marrone detto caffè, cannellone per le tonalità ambrate, pinnolo per l’avorio, carniccia per il rosa, olio per il giallo, musco e verde drago, per i verdi, color di latte per i bianchi. Molto usati i turchini e tutta la gamma dei rossi detti: cremisi, scarlatto, scarlatone, rosso di Bari o color di S. Nicolò».


Il catalogo della mostra riporta anche un curioso glossario della terminologia usata a quei tempi e ne riporto alcuni per soddisfare la curiosità dei lettori.

Camisiola (gilet), Camellotto (tessuto misto lana), Cannellone (color ruggine), Fisciù (mezzo fazzoletto a triangolo), Langhì (tessuto diagonale di produzione domestica), Pettiglia o piece d’estomac (triangolo da inserire al disotto del bustino), Scorza di seta (giallo ottenuto dalle bucce del melograno), Velada o inquartata (giacca di gusto settecentesco), Zendado (manto di origine veneziana).

Curiosità. Pasquale Bellini, già docente dell’Accademia di Belle Arti e critico teatrale de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, scrive nel citato catalogo a proposito di Murat: «Quando nella battaglia di Abukir (1798) Gioacchino entrò nella tenda del comandante turco Mustafà Pascià e questi gli sparò un colpo di pistola in faccia, traversandogli le guance e spezzandogli anche qualche dente. Da allora (intanto con un colpo di sciabola Murat aveva tagliato a Mustafà le dita della mano destra, facendolo prigioniero) il vanitosone si fece crescere le basette fino ai lati della bocca, affinché le cicatrici non deturpassero cotante bellezze!».

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