La danza (millenaria) della peste e dintorni


FRANCESCO GRECO -
Forse fu la peste a decretare il crepuscolo dell’Impero Romano, in sintonia con la crudeltà (lo testimonia Procopio) di Giustiniano. Fra le tante ipotesi formulate nei secoli, appare la più credibile. Non c’erano più soldati a difenderne i confini e a conquistare nuove terre.

Ma probabilmente anche l’affermazione del Cristianesimo – dopo essere divenuto religione di Stato con Costantino – è stata favorita dalle epidemie, al di là di chi lavorò per il proselitismo.

L’ombra cupa di virus e batteri, da millenni si staglia e corre parallela nella storia delle civiltà e dei popoli, da quando abbiamo cominciato a narrarle e anche prima, condizionandole nell’intimo oltre quel che siamo disposti ad ammettere.     

Gli imperi sono stati devastati da peste, vaiolo, lebbra, colera: le città ridotte a paesi, i paesi a villaggi, i villaggi a ricordi, specie nei posti “dove gli individui vivevano ammassati”. Milioni di uomini formattati, sepolti ovunque: nelle torri dei castelli, nei fiumi, nelle fosse comuni. 

Superstiziosi al massimo dati i tempi, tediati dal bollettino di guerra dei tg che ogni giorno recita l’insulsa litania dei nuovi contagi, terapie intensive e altre amenità. Per creare in noi sensi di colpa, dopo aver prosciugato ogni “philia” e farci vivere col braccio perennemente scoperto, in stand bye. E ricordando che Pericle e famiglia perirono di peste e lo storico Tucidide, coevo, se ne ammalò, Cecilia, la giovane madre del Manzoni, consegnò la figlioletta morta dicendo al carrettiere di ritornare l’indomani e che un secolo fa, la spagnola, in epoca di stanzialità e autarchia, senza il turismo di massa, fece 50 milioni di vittime, apriamo con mano esitante il saggio di Charles Kenny, “La danza della peste” (Storia dell’umanità attraverso le malattie infettive), Bollati Boringhieri, Torino 2021, pp. 172, € 24,00, collana “Storia”, bella traduzione di Bianca Bertola, robusta bibliografia a sostegno.

Subito una vecchia conoscenza che provoca sfregamenti inguinali, Thomas Robert Malthus (“Saggio sul principio di popolazione”, 1798), che indicava nella virtù il contrasto più efficace alla propagazione delle epidemie. Ma la virtù è come il denaro: non si sa chi ce l’ha, e poi era un pastore protestante, và capito: l’avessero praticata i popoli del passato, da Assurbanipal a Semiramide, non saremmo qui, ci saremmo estinti non per un virus ma per la follia. Anche perché non tiene conto né delle classi sociali né del principio di eguaglianza: la sua società ideale sarebbe composta dai pochi abbienti a divorare quello destinato ai molti poveri. Cupo darwinismo. Non che gli abbienti siano stati risparmiati dalle epidemie.

La ricognizione di Kenny (ricercatore presso il Center for Global Devolopment della California, laurea in Storia a Cambridge, poi specializzazione alla Jhon Jopkins University e la School of Oriental and African Studies di Londra, 15 anni da economista alla Banca Mondiale operando a Khabul, Baghdad, Brasilia, Pechino) è oggettiva e analitica, essenziale: niente elementi estranei, solo dati, date, snodi storici decisivi, protagonisti.

 Nel mare magnum di autorefenzialità in cui ci hanno cacciati in questi due anni horribilis che stanno rimodulando – magari non ce ne accorgiamo - l’uomo e l’umanità, le economie e le gerarchie dei valori, addensando nubi sul futuro in progress, in cui le narrazioni dicono tutto e l’esatto contrario e gli interessi che si agitano sono corposi e di varia natura (“teoria dei miasmi”), Kenny dice parole definitive. 

La ragione ci porta a concludere che non c’è da farsi illusioni: potremmo essere prossimi a un’altra glaciazione, stop and go e se ripensiamo all’Atene di Pericle sfatta dal morbo e siamo qui a sfogliare questo bellissimo saggio, dobbiamo essere grati agli dèi a cui sacrificare.

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