VENEZIA '14 / Senza “La trattativa” vivremmo in un’Italia migliore?

Dal nostro inviato Francesco Greco. VENEZIA - Un film aspro, appassionato, civile, ma strettamente necessario. Che in certi snodi mette a disagio, provoca crampi allo stomaco, induce il pubblico a un gelido silenzio. Sullo sfondo delle esternazioni ormai quotidiane di Riina: “Bastò un solo colpo per uccidere Dalla Chiesa”.

In un Paese sempre in credito di verità. Anzi, che deride, sbeffeggia chi la cerca con ostinazione. Basta chiedere ai parenti delle vittime delle stragi (qualcuno dice di Stato), dall’Italicus alla stazione di Bologna, dal DC9 di Ustica a Piazza della Loggia, per tacere del caso-Moro. Più si scava, meno se ne sa, fra depistaggi e omertà. Vero è che “la trattativa” è nel dna, forse dettato dalla cultura cattolica, l’ontologico manicheismo: un archetipo della storia patria. Il ministro degli interni Liborio Romano, sotto i Borboni, trattò con Garibaldi, gli americani sbarcati in Sicilia (secondo conflitto mondiale) trattarono con i padrini, ecc.

“La trattativa”, il docu-film fuori concorso (giustamente temuto dal selezionatore della Mostra Augusto Barbera) firmato da Sabina Guzzanti (a quattro anni da “Draquila”), specula su questo assunto, mettendoci nell’orecchio una pulce bella grossa: senza la trattativa Stato-mafia oggi questo Paese sarebbe diverso, migliore. Forse, chissà, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero tranquilli pensionati che a Palermo portano ai giardinetti i nipotini. E’ stato accolto con applausi calorosi, liberatori: segno che il bisogno di uscire da questa palude italiana è trasversale e ormai irrinunciabile: un passaggio obbligato, un bisogno estremo di verità: guai a sottovalutarlo.

La regista dà un taglio documentaristico, sobrio, spiccio, intrecciando materiali di repertorio con ricostruzioni in cui usa gli attori (bravo Bruschetta). Restando sempre fedele alle carte dei processi (incluso quello del 2013). Ogni pagina, anzi, ogni parola della sceneggiatura è stata verificata ben 1671 volte! Più scrupolosi di così. Un ruolo fondamentale l’ha avuto Radio Radicale, che non censura nulla. Mentre l’informazione diciamo ufficiale ne esce male. “Più andavo avanti, e più mi prendeva la depressione e la paura – dice amara Sabina – e mi veniva la tentazione di andare via dall’Italia”. Pure noi, però così restano solo quelli del malaffare e dintorni.

E dunque, 20 anni di vita italiana all’odor di tritolo, di sangue rappreso, al fetore della bugia canforata. Parte dallo stragismo mafioso anni Novanta (Georgofili, Capaci, via D’Amelio), passa per il maxiprocesso, uno snodo storico con cui lo Stato rispose alla mafia, si sofferma sulla nascita di Forza Italia per sfociare nella “presunta” (presunta? C’è una lettera di Donato Marra) trattativa Stato-mafia al più alto livello: l’ipotesi della Guzzanti (“tutto è documentato, il film è inattaccabile, purtroppo…”) è che Napolitano avrebbe fatto pressioni sulla Cassazione e sul procuratore Pietro Grasso per accorrere in difesa di Nicola Mancino.

Di tutto, di più: uno spaccato della melma italiana, dei chiaroscuri in cui si muovono, al confine fra legalità e non (come aveva intuito Giuseppe Ayala), dentro le istituzioni e fuori: mafiosi conclamati, massoni noti, alti ufficiali, servizi segreti (si presume deviati), magistrati deboli, politici dal doppio livello, ecc. Come si fa ad arrivare al covo di Riina, al suo archivio, e tornarsene a casa? Si pensa d’istinto alla prigione di Aldo Moro.

“Le istituzioni italiane hanno paura della democrazia – osserva acuta la regista – bloccando il rinnovamento e tentando di convincerci che è per il bene del popolo”. Onestà intellettuale e coraggio sono gli elementi essenziali di questo film - e di chi lo firma - che farà discutere, e meno male. Che almeno il confronto avvenga senza pregiudizi di sorta né demonizzazioni, senza barbarie, nell’interesse esclusivo del nostro meraviglioso Paese e del nostro popolo unico che non merita tanta menzogna, ed è migliore di chi lo governa e gliele propina senza pudore, con supponenza e volgarità, come se avesse l’anello al naso.

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