Magia e superstizione: streghe, masciare e...

di Vittorio Polito. Secondo la mitologia popolare la strega è un essere soprannaturale immaginato in aspetto muliebre o donna reale che svolge un'attività di magia nera e comunque dirige gli eccezionali poteri che le vengono attribuiti ai danni di altre persone: un tempo le streghe venivano processate, torturate, bruciate vive sul rogo. Secondo lo scrittore inglese M. Summers «Ãˆ una malvivente; peste e parassita sociale; devota a un credo osceno e ributtante; adepta del veneficio, del ricatto e di altre pratiche delittuose ripugnanti, aderente ad una potente organizzazione clandestina, nemica della Chiesa e dello Stato; blasfema nelle parole e nelle opere; abbindolatrice di paesani ignoranti con le armi del terrore e della superstizione».
La credenza nelle streghe è riscontrabile presso innumerevoli popoli, come pure la convinzione che certe donne, possedute da una natura demoniaca, siano dedite al cannibalismo, alla magia, all’assassinio e all’annientamento della potenza maschile. Questo genere di streghe simboleggia il lato negativo della natura femminile, quel suo tratto oscuro di cui il maschio ha timore.
Le streghe vengono chiamate anche masciare, megere o fattucchiere, e sono rappresentate da donne che nonostante l’avanzare della civiltà e del progresso, esercitano ancora oggi la magia, tentando di dominare le forze occulte della natura per sottoporle al proprio potere, fermamente convinte della validità della magia bianca o nera (?).
Queste donne sono anche le protagoniste delle storie che Pasquale Locaputo, ha scritto nel suo libro “Le Masciare” (Edinorba Editore), con l’intento di fare un gesto d’amore verso la sua città, la sua storia, il suo patrimonio culturale.
Locaputo ha pensato bene di dare uno sguardo ai verbali inediti di un processo svoltosi nel 1582 a Conversano a carico di alcune donne accusate di stregoneria. Da quei verbali egli ha tratto spunti e materiali narrativi per gli interessanti racconti inseriti nella pubblicazione, ricostruendo, su base in genere fantastica, le vicende personali di alcuni protagonisti, sullo sfondo di una città di oltre quattro secoli fa, con i suoi edifici civili e religiosi, presenti ancora oggi nella odierna Conversano.
La quattro “masciare” di cui scrive Locaputo si chiamavano Paola Marchesano, Maria Richione, Rosa Colangelo e Antonia Piscitello, le quali probabilmente finirono sul rogo, vittime, forse inconsapevoli e ignare, del clima di “caccia alle streghe” e dei pregiudizi ideologici che contraddistinsero l’epoca.
I racconti lasciano il problema aperto, tentando di documentare credenze e pratiche popolari in concorrenza o in complemento della medicina del tempo con il rischio per le “masciare” di sconfinare nell’abuso e nell’illecito.
Anche per l’uomo del duemila la superstizione e la magia continuano ad avere un loro spazio ed un loro significato, nonostante l’avanzare della civiltà e del progresso. Ancora oggi vi sono persone fermamente convinte della validità della magia bianca o nera. Molti di voi hanno seguito qualche tempo fa, attraverso “Striscia la notizia”, le storie di imbrogli e di truffe da parte di Wanna Marchi e compagni ed i loro tentativi di carpire la buona fede dei creduloni con numeri del lotto, schedine o quant’altro, con il solo scopo di vendere fumo e spillare soldi. Tali fatti infiammarono l’opinione pubblica nel gennaio 2002 in occasione del quale si scoprirono tentativi di frode e frodi vere e proprie da parte di persone che cercavano di sfruttare l’ingenuità del prossimo. Purtroppo nel nostro piccolo anche noi ci scopriamo un po’ superstiziosi, desiderosi di dare la colpa a qualcosa o a qualcuno se le cose vanno male e risolverle, quindi, con un bel colpo di bacchetta magica.
E all’estero che succede?
In Bulgaria per proteggersi dalla sfortuna non si tocca ferro, ma si bussa sul legno. Per invocare la fortuna non si incrociano le dita ma si stringono i pollici. In Cina sono disposti a pagare una follia per targhe d’auto contenenti il numero 8. La stessa cosa avviene per il numero civico o quello telefonico. Tutto ciò solo per una omofonia linguistica tra il numero “otto” e la parola “ricchezza”. Il numero 4, che ha una pronuncia simile a “morte”, equivale al nostro 17. Infatti negli alberghi non esistono camere contrassegnate con il numero 4. In Ecuador se i fidanzati si lasciano per colpa della ragazza e l’uomo piange, la donna sarà sfortunata in amore per sette anni. Per evitare il malocchio, invece, prima della doccia, bisogna buttarsi addosso la pipì e poi lavarsi.
Nelle Filippine il popolo non si ritiene particolarmente superstizioso, ma visto che non c’è nulla da perdere, anche loro adottano una serie di piccoli gesti scaramantici. Dopo il tramonto non si tagliano capelli e unghie. Prima di fissare la data delle nozze si assicurano che nessun altro parente si sia sposato nello stesso anno, diversamente si dividerà con lui la fortuna. In India porta sfortuna incontrare un prete, una suora o una vedova. Porta bene invece incrociare una mucca o una prostituta, sentir cantare gli uccelli o ascoltare il suono delle campane. Inoltre in caso di morte è importante prendere le esatte misure dello scomparso, diversamente se la bara è troppo grande, presto ci sarà un altro funerale. In Perù per avere fortuna bisogna portare nel portafoglio una banconota da un dollaro piegata in quattro. Mentre quando una donna partorisce, per scacciare la malasorte, legano al polso del nascituro un nastrino di raso rosso.
In Polonia, in presenza di una donna incinta, non bisogna lasciare niente di aperto (porte, armadi e simili) se si vuole evitare un parto prematuro. Le lettere con brutte notizie vanno bruciate per evitare che le disgrazie si ripetano. Accendersi una sigaretta dalla candela equivale a far morire un uomo in mare. In Russia, se la massaia lecca il cucchiaino, al marito cadranno i capelli. Per le ragazze, invece, è vietato alzarsi dopo mangiato senza pulire il tavolo o saranno lasciate dal fidanzato nel bel mezzo di un ballo. Se una ragazza siede sul posto occupato prima da un’altra donna in stato di gravidanza, rimarrà incinta entro un mese. In Senegal la scaramanzia si attua evitando il più possibile di rivelare ciò che si sta progettando di fare. L’invidia o la gelosia, infatti, possono rovinare anche il più piccolo dei progetti. Bisogna evitare di mangiare nello stesso luogo in cui si è cucinato o vedere una persona nuda di mattina.

Le Curiosità
La pioggia è considerata un segno di sfortuna presso alcuni popoli ed è invece di buon augurio da noi (infatti, si dice “sposa bagnata, sposa fortunata”).
Dall’antica Roma deriva l’usanza di prendere tra le braccia la sposa quando entra per la prima volta nella casa coniugale. Si ricorreva a questo per evitare che, nell’emozione del momento, la sposa potesse inciampare sulla soglia: un presagio infausto perché significava che le divinità della casa non la volevano accogliere. La tradizione vuole che gli sposi non si vedano né si parlino il giorno delle nozze e quello precedente all’incontro in chiesa: è vietatissimo fare colazione insieme e anche le comunicazioni dell’ultima ora devono avvenire per via indiretta, attraverso parenti o amici.
Lo sposo, che è uscito di casa per recarsi in chiesa, per nessun motivo deve tornare sui propri passi: ecco perché è bene che in questi frenetici momenti sia seguito passo passo da un amico o da un testimone. Porta sfortuna acquistare nello stesso momento l’anello di fidanzamento e le fedi nuziali. È di cattivo augurio mettersi al dito la fede prima della celebrazione del matrimonio.
Pare sia fondamentale anche la scelta del giorno della settimana in cui sposarsi: una tradizione indica che il lunedì reca buona salute, dato che questo giorno è dedicato alla luna, dea delle spose; il martedì porta ricchezza sicura, ma contraddetta dal proverbio «Né di Venere né di Marte non si sposa né si parte»; il mercoledì è assai propizio; il giovedì reca dispiaceri alla sposa; il venerdì, come detto, pare che porti disgrazia; il sabato, invece è, per ovvie ragioni, il giorno che la maggior parte delle coppie sceglie per sposarsi, ma la credenza popolare lo indica, invece, come il giorno più sfortunato.
Per concludere, una simpatica poesia in dialetto barese del poeta e commediografo Emanuele Battista, che dimostra come la superstizione può sconvolgere la vita di una persona che crede in essa.
Pertanto, volete uno spassionato consiglio? Rivolgetevi al sacerdote in caso di problemi morali e spirituali o al medico in caso di malattie, senza andare a cercare cure empiriche di dubbio risultato e con spreco di quattrini, ovvero cercare nello psicologo un sostegno per migliorare la qualità della vita. Almeno le loro prestazioni sono disinteressate e basate esclusivamente su morale, scienza e coscienza.

U destìne

O ragionìire Franghe Di Mòneche
u chiamàvene : “iè schemmòneche”.
N’omne assa’ supersteziùse,
ca pe nudde addevendàve nervùse.
Ce passàve da nanze na gatta gnore,
se meseràve la frève ogne do iore.
Ce acchiàve na ciumma fèmmene
la gastemàve e s'aggeràve de sckène.
O ciumme mascue, ‘mbèsce nge fescève drète,
pe teccuànge la cascetèdde ’nzegrète.
Ce avèva nemmenà u diggesètte a ngualchedùne,
nge decève sìddece chiù iune.
No nze facève ma’ meserà l’aldèzze
pe pavùre de ièsse fatte u tavùte sèzze-sèzze.
Ce a la tàuue s’assedèvene trìddece crestiàne
S’alzàve desciùne e se ne scève a chiane a chiane.
U cappìdde sop’o litte ma’ u mettève,
decève ca la malanòve sùbbete venève.
Ce la notte se sennàve la cadùte de le dinde,
la matìne ‘mbrime avvesàve tutte le parìnde.
Nu cuèrne russe jìnd'a la palde sèmme pertàve
e ogne dèsce passe che la mane u-accarezzàve.
Ogne dì lescève l’oròschepe a la matìne,
che nu pacche de sale sott'o tauìne.
Ce ’nguàlche cose ca stève a fa’ no nge quadràve,
“iè schemmòneche” sùbbete gredàve.
E ce iève ‘nguàlche ialde ca ng'u decève,
’mbrìme-’mbrìme nge credève.
Na sère, na zìnghere, nge lescì la mane,
e nge mettì la cacàzze chedda reffiàne.
“Crà, a da fa’ attenziòne, ragionìire,
a le cavàdde e le checchìire”.
Franghìne, la dì a doppe se mettì ammalàte
e s’asseddì a la boldròne tutt’ assestemàte.
’Mbacc’o mure stève nu quadre,
nu trajìne che le cavàdde e le quandre.
A buène a buène u quadre se staccò
e dritte dritte ’ngape a Franghìne azzeppò.
La chernìsce pesànde e d'attòne
de ponde nge spaccò u fermendòne.
E achsì, Franghìne sènze ca se n'avvertì,
sott’o trajìne e le cavàdde merì.

4 Commenti

  1. Mi complimento con l'autore per la simpatica poesia succitata. In essa, però, a mio parere viene fatto un uso incoerente della "j". Chi decide di rifarsi alla fonologia, in scrittura (ricorrendo alla "j"), è bene che lo faccia in maniera completa e quindi coerente. Io credo che, nel testo, di “j”, dovrebbero figurarne altre 19 (stando alle regole fonologiche). Per una questione di semplicità, consiglio a tutti gli scrittori dialettali baresi, di adoperare solo la “i” (facendone uso anche in posizione non vocalica). Così facendo si eviteranno incoerenze. Il suono /ji/ sarebbe rappresentato da “iì” (es.: traiìne), con la seconda “i” accentata. Non ci si può confondere con lo iato italiano, in quanto quest’ultimo lo si trova nel corpo della parola, dopo la consonante. Lo “iì” inteso come /ji/, invece, lo si trova ad inizio parola o nel corpo della parola dopo la vocale.

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  2. Il conteggio delle “j”, è stato effettuato non tenendo presenti eventuali dieresi e sineresi.

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