Gismondi, gli ingrati lo lasciarono solo
di Francesco GrecoUn anno fa, il 12 aprile, se n’andava Mario Gismondi. Maestro di giornalismo e di vita. Uomo vero, libero, orgoglioso, dignitoso, coraggioso. Con gli attributi. Chi ha avuto la fortuna di svezzarsi alla sua “scuola” correggendo bozze e imparando a fare i titoli, ma soprattutto a tenere la schiena dritta, oggi che il giornalismo si è modulato, nella migliore delle ipotesi, su servi ed escort, e la disonestà intellettuale regna sovrana, sà quant’è stato fortunato.
La sua parabola s’è conclusa alla soglia degli 86 (era nato il 26 luglio 1926). Fino a un anno prima stava bene, era diventato salutista, aveva smesso di fumare a 50 anni, mangiava poco, faceva cyclette. Era in splendida forma, un magnifico 80enne direbbe Nanni Moretti.
Da suo discepolo potevo scherzare quando andavo a trovarlo in quella che chiamava “caserma” (Nerone e gli altri cani tacevano: avevano memorizzato il mio odore). Lo trovavo sempre al pc, curioso come un bambino di imparare cos’è un link e un download: “Gli esami non finiscono mai!”, celiava.
Osservavo l’attaccapanni: cappotto e giacca appesi per non sgualcirsi. Alle spalle la foto del padre, il nonno (“il podestà”), quella col Presidente Pertini, l’amato genero Bartolo Bozzi (“il figlio che non ho avuto”). “Stavolta la trovo più magro e giovane dell’ultima volta… Sa che dicono che scrive come un 40enne?”. Sorrideva: “E’ vero, sto bene, ma quando il Padreterno mi manderà la cartolina…”. “Cartolina? Lei è programmato per il secolo… Faremo una grande festa: inizierà dopo aver impaginato il “sarò breve”… Ci vorrà uno stadio per contenere quelli usciti dalla sua bottega…”. Ci credeva un po’ e scherzava rassegnato: “Ti sei condannato a darmi del lei…”.
Vero. Metteva soggezione. Non mi usciva il ”tu”, figuriamoci chiamarlo Mario. Ogni volta mi chiedeva della macchina per scrivere che avrei lanciato addosso a un collega (ora all’Ansa) al quinto piano di via Due Macelli, la seconda redazione di “Olimpico” (la prima fu in piazza Cola di Rienzo, a Prati): “E’ una leggenda metropolitana... “. E lui: “La prossima volta ti racconterò di quello che non sapeva scrivere, così lo misi a fare i titoli…”.
D’improvviso diventava ansioso: capivo, mi alzavo. Scappava a registrare il corsivetto per “Rtg” accudito amorevolmente come un patriarca da figlie e nipoti. S’appoggiava al mio braccio e ci facevamo la “vascata” della redazione sotto l’occhio delle “reclute”.
Quando se n’andò mio padre, aprile 2004, mi fece una lunga telefonata affettuosa. Mi trattava come un figlio e io gli volevo bene come a un padre. Un po’ burbero, linguaggio colorito, era un uomo generoso. Questo portatile è un suo regalo di Natale: lo mandò col corriere. Ho qualche lettera: grafia curiosa, infantile, da bambino di Va elementare. Ho delle sue mail che non ho mai cancellato.
Sfoglio “Giornalismo amore mio 2” (per timidezza non me lo feci autografare). Rileggo una mail (“Hai dimenticato che sono astemio?”), (“Mi rimprovero di non aver fatto di te il professionista che meritavi…”), i corsivi: che stile! Reggerà al tempo. Meridionalista tenace, militante, non retorico. Incarnava il meglio degli uomini del Sud: non si lamentava, lavorava, “zappava” diceva lui.
Nessuno in questo mestiere che definiva “un’insana passione” è stato più libero di lui, dal primo giorno all’ultimo. Piaceva la sua ironia. Di cui anche quello scrivevo su “Puglia” (la “lucida follia”) era contaminato, in un gioco delizioso di echi e rimandi fra maestro e allievo.
Aveva deciso di chiudere una carriera prestigiosa nella sua città rifiutando incarichi importanti (“Il Giorno”, la Rai, ecc.) per restare libero, editore di se stesso, “senza padrini nè padroni”. Un maestro del giornalismo nazionale che dopo Brera, Montanelli, Biagi, Bocca non ne ha più. Le redazioni italiane sono piene di allievi, a tutti i livelli di carriera. Parlavamo e parlavamo in lunghe mattinate radiose di primavera. Padre Pio e Arpino, Beha e Beppe Lopez, Mazzola e Governato, Lo Jacono e Oronzo Valentini, Paolo Valenti e Barendson, Zavattini e Scalfari a cui consigliò, quando nacque “Repubblica”, di metterci lo sport se voleva che il giornale avesse successo. Scalfari prima nicchiò, per snobismo, poi dovette farlo (e prese Brera).
Di Gruppi editoriali, di cui sapeva tutto, da “ignorante enciclopedico”. Mi raccontava delle visite in redazione: “Oggi è venuto l’inviato del Tg3, lo str..., abbiamo scherzato sui vecchi tempi… Ieri mi ha salutato il caporedattore Rai, faceva il loculista con te, ti ricordi?… Quell’altro no, è rimasto in macchina, non è stato mio allievo: fosse venuto avrei preso anche lui sotto…”. Mi concesse di intervistarlo in (“Giornalismo amore mio 2”, la splendida fatica di scrivere, 2006, con Perrelli, De Tomaso, Pirro, i nipoti). “Sei una delle dita della mano di Gismondi…”, dicevano gli amici. Promise altri aneddoti.
Non sono autorizzato a svelare retroscena. A primavera 2011 il direttore dei direttori si ammalò. C’erano problemi (la legge sull’editoria non fu più finanziata: gli stravizi della casta alla fine li pagano gli onesti lavoratori, lui avrebbe detto: il cetriolo gira e gira va all’ortolano…), il Gis fu lasciato solo. I più ingrati furono i politici, i giornalisti, gli imprenditori, gente che aveva aiutato in tutti i modi, che aveva preso senza dare nulla: non si fecero più trovare.
La solitudine lo ferì mortalmente, era un uomo sensibile, acuto, che decodificava ogni dettaglio: “Il cuore non ha retto…”, mi confidò Rossana. “Dai, la vogliamo in trincea… - lo incitavo – il sito di Puglia è vicino ai 100mila lettori... Ce la dobbiamo fare, è una sfida al mondo, dobbiamo vincere…”. Roxi lo seguiva nella riabilitazione: “Mi coccolo il mio papà… Si sta riprendendo, ma per la trincea è ancora presto…”.
Reagì bene, aveva la scorza del combattente, lo sapevo, ci speravo, sentivo che era possibile che tornasse in trincea. Rossana ci informava dei progressi: “Ieri abbiamo parlato dei massimi sistemi dell’editoria: che mente!”. “Posso chiamare per salutarlo?”. “Meglio di no, s’affatica con niente… Il Gis è come un bambino: più in là…”. Intanto Rossana rinnovò “Puglia” e un giorno mise in prima il mio editoriale, 22 righe, lo mostrò al Maestro, approvò. Una mattina un tuffo al cuore: c’era un editoriale senza firma, sembrava suo, lo stile scarno, pregno... Rossana commossa mi ringraziò: era suo.
Le cose poi precipitarono. A fine gennaio 2012 “Puglia” sospese le pubblicazioni. La suddetta genia di rapaci continuavano a non farsi trovare: “Quello là ci ha menati per il naso per un anno…”, rifletteva amara Rossana. A nessuno faceva comodo una voce scomoda, il blocco dei finanziamenti fu il detonatore. Fu così fatta istanza di fallimento. Politici e imprenditori continuarono a negarsi, i giornalisti svezzati alla sua scuola tacquero. E’ l’umanità cannibale, darwiniana che ci siamo dati, un’insulsa scala di valori. Avevano preso tutto, si sdebitarono col gelido silenzio che intristiva sempre di più il direttore.
Disgustato, parlai io che in quella “bottega” appresi a scrivere, a stare al mondo. Mandai due “opinioni” a qualche giornale, non la lessi, restai amareggiato a mia volta. Il giornalismo ormai è tutto embedded, la censura regola, la koinè morta: i giornali languono in edicola incapaci di trovare la via per uscire dalla crisi. Più che dell’Ordine c’è bisogno di disordine.
Un coraggioso protagonista della cultura del ‘900. Ci mancano i suoi pezzi sinceri, spesso irriverenti, gli abbaglianti “Sarò breve”. Da un anno siamo tutti più poveri, soli, tristi: il giornalismo, la Puglia, il Sud. Sentiamo un vuoto che ubriaca, un’ulcera che sanguina. S’è chiusa un’epoca di giornalisti romantici, appassionati, viscerali, dentro alla realtà, in grado di influenzarla, siamo immersi in quello sociologico, di servi, velinari.
Ciao Gis, aspettami nella nuova redazione piena di luce (come la tua alla “Piscina dei Preti”) dove sei adesso: non si può pensarti in un luogo diverso: “Se non scrivo, muoio…”, ti scappò in un “Sarò breve” su “Olimpico”. Mi chiederai ancora di quella Olivetti 22 macchina volante (me l’aveva comprata Cosimo, mio padre)... Ti farò i complimenti per la cravatta verde e il buon profumo. Mi svelerai chi c’era dietro gli pseudonimi: Jeep, Massimo Massimi, Marco Pietra, Francesco D’Anna… Spettegoleremo del corrispondente dalle Marche che scriveva aulico. E ricordi Nino Doldo, Mimmo Della Corte, Roberto Masetti? Avevi la memoria di 10 elefanti: si, hai ragione: l’aulico “fuorisacco” era Walter Brandimarte…
Tags:
CRONACA