“Le ceneri del passato”, se il cinema racconta la guerra

di Francesco Greco - Sceneggiatore a Hollywood, Dalton Trumbo ripensò, nel 1932, alla storia vera del tenente inglese ridotto a “torso umano senza braccia, senza gambe, cieco, sordo… morto dopo 15 anni di sofferenze” e buttò giù uno script. 17 produttori lo rifiutarono. Di guerra non si doveva, e non si deve, parlare manco oggi. Almeno non in termini crudi e realistici. Disturba le coscienze, meglio manipolarle. La copertura mediatica delle guerre nell’epoca dell’I-pod e i pixel non è forse assicurata da briefing di generali spocchiosi (“non sono loro a decidere le guerre”) che raccontano ciò che gli pare (per una questione di sicurezza, ovvio!) e da cronisti embedded che ripetono come scolaretti alla Forrest Gump i passaggi delle veline? Compitini didascalici che sdegnano le domande. Chi ne fa è un “disfattista”, talvolta accusato di “intelligence” col nemico. Ne sapevano di più, da inviati di guerra, Montanelli e la Fallaci, che non bevevano le versioni ufficiali e hanno raccontato le “loro” guerre (“gli Stati avevano mandato al macello la meglio gioventù… la sensazione dei soldati di aver patito dolori inutili, di un sacrificio che presto sarà dimenticato… troppa cenere, troppe lacerazioni, mutilazioni, dolori, odi…”). Trumbo, per la storia, riuscì a girare “E Jhonny prese il fucile” (1971, in piena guerra del Vietnam: l’input estetico fu quindi il marketing?), finanziato dal giovane produttore indipendente Simon Lazarus, film in b/n, aspro, commuovente, che lascia inebetiti, muti per la rappresentazione della guerra, innalzata a metafora della condizione umana e di ciò che l’uomo può fare: un “cult” estetico, etico, politico, filologico, ecc. Paradossalmente, al temnpo della medialità che c’avvolge come gramigna malvagia, e ci confonde, la guerra – raccontarla per com’è - resta un tabù, non deve disturbare l’immaginario collettivo, è troppo rischioso: magari si finirebbe, come scrisse Hemingway che se n’intendeva, con l’ammazzare per primi “i porci che l’hanno voluta” (e, ripetiamo, non sono i generali che accigliati studiano le mappe nelle war- room dei film delle major). E, sempre sul filo del paradosso, possiamo dire che ne sappiamo di più delle guerre antiche grazie a cronisti d’eccezione: da Troia (Omero) alla conquista delle Gallie (Cesare lavorò di suo pugno forse temendo mistificazioni postume). Per non dire del “sacco” di Otranto (1480-81) magnificamente descritto da Maria Conti ne “L’ora di tutti”. Eppure, nonostante ciò, a 100 anni dalla Grande Guerra (ricorre oggi 28 luglio, “la prima che si possa definire come middle-class war… la prima della borghesia”), su quell’orrenda carneficina, “gioco di sangue” che “muore di autoconsunzione. Dieci milioni di cadaveri ingrassano la terra, invalidi vagano per le strade chiedendo l’elemosina… i cortei ebbri di rose si trasformano presto nelle processioni funebri… il cinema continuerà a proporre cortei di morti viventi…” (il dopo è forse peggiore: mutilati, reduci, sbandati, uomini e donne segnati nel corpo, nell’anima, mentre al cinema “Joan si uccide per non dare figli alla guerra”, “Denise riesce a salvare la bandiera del reggimento con la quale avvolgerà il neonato”) si contano un migliaio di film che, sospesi fra propaganda e denuncia, critica e apoteosi, l’hanno scannerizzata, e non era facile, anche per “l’addomesticamento semantico della violenza di guerra”, e infatti “Bäumer non riesce a trovare le parole per raccontare l’orrore, resta silente…”. Giuseppe Chigi analizza il rapporto fra guerra e celluloide nel bel saggio “Le ceneri del passato” (il cinema racconta la Grande Guerra), Editore Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 263, € 16 (collana “Lo schermo e la storia” diretta da Christian Uva, Università degli Studi Roma Tre). Chigi ha insegnato a Venezia (Cà Foscari) “Storia del cinema italiano” e “Didattica del cinema” e ha alle spalle monografe su celebri registi e saggi ponderosi, fra cui “La memoria inquieta. Cinema e Resistenza” (2009) e “Il tempo che verrà. Cinema e Risorgimento” (2011). Il critico parla quindi pro domo sua, e si vede subito dalla struttura organica, analitica del lavoro. Che dovrebbe essere adottato in tutte le scuole repubblicane, per spargere preziosi virus nelle menti delle nuove generazioni, affinchè i guerrafondai di tutte le risme - ossificati in archetipi dal fanatico professor Kantorek (uno dei tanti educatori della Germania guglielmina, Erich Maria Remarque, “All’ovest niente di nuovo”) e dallo psicopatico interpetato da Erich Von Stroheim “la gente pensava che io fossi nella realtà come apparivo sullo schermo…” - non trovino humus fertile per le loro elucubrazioni populiste, facendo credere che “morire sarà una grande e meravigliosa avventura”, che tutte le guerre si risolvono “in pochi mesi” e spacciandole, astutamente, per “speranza di un cambiamento profondo, millenaristico, quasi escatologico” e intrecciandole di volgare poesia (“guerra e vittoria”, “dolore e morte”) e di estetiche posticce “l’attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli… la battaglia dei materiali” (Junger). Se non usato come rozzo strumento di propaganda, ambiguo (chi sono gli eroi e i vigliacchi? gli innocenti e i colpevoli?), per occultare la verità o di mera convinzione: basti dire del nazionalsocialismo e delle parate militari del fascismo con l’iconografia sovrapposta all’Impero (in Gran Bretagna il pool che voleva convincere gli inglesi ad arruolarsi nel secondo conflitto era fatto da fior di intellettuali: da Wells a Chesterton, da Thomas Hardy e Conan Doyle) il cinema è schierato – e non potrebbe essere altrimenti sottintesa la sua ontologica declinazione pedagogica - sul fronte pacifista, della fiducia nell’uomo senza se e senza ma (come sostenne negli stessi anni Bertrand Russell), nelle armi della diplomazia, la dialettica, il dialogo incessante, il confronto, la convivenza pacifica. E’ questa la modulazione carsica che impregna il saggio di Chigi, che attinge a una bibliografia sconfinata estraendone il mood più intenso. Il cinefilo scansiona ogni interfaccia di una materia complessa che quando detta “la ricostruzione prevalente dei fatti” tocca inaspettati vertici di lirismo e di coscienza (“Perché sto uccidendo e per che cosa?”) che emoziona i cuori, folgora le menti, costringendo i governi – per i quali la guerra è la continuazione della politica con un’altra dialettica – a trovare vie pacifiche per redimere le conflittualità. Curioso poi che da noi “ci sono voluti quasi quarant’anni prima di poter vedere un film italiano che si allontani dalla retorica…”: lo firmò Mario Monicelli nel 1959: “La grande guerra”. Ma le donne che piangono al passaggio di un esercito in disfatta, un Armnageddon straccione, ebbero una potenza evocativa, di accusa, di poesia che è nella storia del cinema. Formattati così gli antichi Romani “cocardier” con l’orologio al polso dei film di regime e la marzialità del campo lungo di Frau Leni, musa del cinema uncinato.

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