Ina Schlüter (30 anni di “Scala”): “Chailly erede di Muti”
di Francesco Greco - “Chailly mi pare il successore ideale di Muti…”. Parola di Ina Schlüter, per 30 anni secondo violoncello-canterino alla “Scala” di Milano: una delle più grandi interpreti del nostro tempo. Opinione autorevole: conosce il mondo della musica e il suo background: ha conosciuto e lavorato con i “nomi” più noti del Novecento, direttori e interpreti ormai nei libri di Storia: da Abbado a Kleiber (celebrità particolare: non ha mai voluto diventare un vip), e poi Muti, Bernstein, Maazel, Giulini, Gavazzeni, Sinopoli e ancora Bruson, Carreras, Domingo, Juan Pons, Pavarotti, Capucilli, Raina Kabaiwanska, Freni, la Tebaldi (“elegantissima, era sempre seduta in un palco vicino al palcoscenico”), ecc.
E’ nata a Munster (Westfalia), dove ha studiato sino al diploma. Poi vinse un concorso alla “Scala” e a Milano ha lavorato per 30 anni (“28 anni più 2”). Nel 1966, col suo “Detmolder Trio”, vinse il primo premio indetto dalla radio di Amburgo che lanciava giovani concertisti e musicisti. L’input di una carriera in ascesa: tournée in tutto il mondo, con l’opera, con la Filarmonica della “Scala” e come solista di musica da camera. Ha 2 figli: Florian, fisico, che guida un gruppo di scienziati alla “Sony” di Stoccarda e Miriam, referente della stampa estera del Ministero degli Esteri tedesco. Sono bilingue: studi a Milano e poi a Berlino. E 7 nipoti che seguono le orme della celebre nonna: 2 suonano il pianoforte, 2 il violino, uno il corno, uno il violoncello: la settima ha solo 3 anni.
L’inverno vive a Cernusco sul Naviglio (“là ho ancora molte cose da fare”). Ora che l’estate scolora nell’autunno mediterraneo, è in partenza. Continua la vita di sempre: il 20 novembre il suo Trio darà un concerto a “Casa Verdi” (la home per musicisti in difficoltà voluta dal “cigno di Busseto”).
Siamo nel giardino della sua piccola casa di Morciano di Leuca, nel Salento meridionale. Come tanti, non ha resistito al richiamo quasi ancestrale di questa terra antica e magica amata da Federico II, il “Puer Apuliae”, alla sua energia, la sua anima. Un giardino che è anche un salotto dove si incontrano musicisti molto noti. Stamane c’è Antonio Amoroso, compositore nato nel Leccese (Alessano), famoso in Germania e la moglie Imgarde. Clima informale: si beve caffè, si mangiano dolcetti, si parla di Brahms (“Imparò molto da Schumann”), Muti, Carlos Klieber (“con lui feci “Tristano”, “Otello”, la “Bohéme”, il “Cavaliere della Rosa” di Richard Strauss: un genio noto solo agli appassionati perchè non ha lasciato registrato quasi nulla, “non volle far carriera”), del pianoforte di Horowitz, il più grande pianista di tutti i tempi: è a Casa Verdi, e di un mondo ormai perduto, quello dei grandi direttori: uno a uno lasciano la scena: “Una favola che finisce…”, riflette. Lo scirocco fa stagnare la tristezza agli angoli del cortile di via Pace avvolto da un silenzio di cristallo.
Sorride: “Perché ho preso casa in Salento? Venivo ogni tanto a trovare gli amici. Mi sono fermata perché mi piace lo spirito di vita, la ricchezza umana e materiale di questa gente, la sua semplicità, ma anche per la storia della Puglia, con cui la Germania ha tante affinità, a cominciare da Federico di Svevia. Qui la bellezza è ovunque e io mi trovo bene…”.
Così bene che il 25 maggio è stata a Gallipoli col suo “Trio Classico di Milano” per un concerto al Teatro “Garibaldi” (chiamata dall’assessorato alla cultura, il Conservatorio “Schipa” di Lecce, Lions, Fidapa, BPW Italy, Accademia dei Serenati) per il Festival Internazionale Itinerante “La Voce degli Angeli”: ha proposto Clara Wiek Schumann, moglie del compositore, amica di Brahms, la più grande pianista del suo tempo (Piano trio opera 17 in sol minore) e Fanny Meldessohn Hensel (Piano trio opera 11 in re minore). Introdusse la prof. Maria Primiceri, Massimo De Biasio (violino), al piano Keiko Hitomi Tanizawa, lei al violoncello.
Domanda: Signora, partiamo dall’inizio?
Risposta: Provengo da una famiglia non di musicisti ma curiosi della musica e dell’arte in genere. Sin da bambina ho amato la musica e a 10 anni ero ammaliata dai suoni, dagli strumenti e ho capito che sarebbe stata la mia vita. I miei genitori hanno assecondato la mia passione. Dopo il liceo mi iscrissi al famoso Conservatorio di Detmold, il “Musikhochschule”, non lontano da Munster, da cui uscii col diploma. La musica da camera mi ha sempre incuriosita…
D. Ricorda il primo concerto?
R. E come potrei scordarlo? A 11 anni, in un negozio di Munster, serenata in do maggiore di Breval. Era il 1954. Vinsi un pullover. Nella Germania del dopoguerra eravamo tutti poveri. Ricordo la gioia di mia madre: non doveva comprarmelo per ripararmi dal freddo… Poi nel 1966 vinsi un premio e così cominciai a suonare dappertutto. Arrivai così alla Scala: mi chiamò Abbado per l’Orchestra della Scala, poi ho suonato sin dall’inizio con la Filarmonica che aveva fondato. Vinsi il concorso e diventai secondo violoncello in funzione di concertino, sempre al primo leggio, sotto la mano destra del direttore d’orchestra.
D. Cosa ricorda di Abbado?
R. Sono stata molto amica di Claudio. Un aneddoto: mentre facevamo il “Loengrin” di Wagner, regia di Strehler, il re diceva una battuta: “Il sole è alto a mezzogiorno”. Ma sul palcoscenico era tutto buio. Lui mi guardava e sorrideva… Altro aneddoto: facevamo il “Wozzeck”, di Alban Berg, mi chiese la partecipazione dei miei figli, 10 e 11 anni: dovevano cantare e parlare in tedesco. Anche loro quindi hanno lavorato sia alla Scala che a Parigi per una tournée dell’opera. Era tenerissimo con i miei figli e chiedeva sempre di loro…
D. Leonard Berstein…
R. Il grande direttore d’orchestra era sempre molto gentile con me. Una volta suonavamo Stravinsky a Venezia, a lui piaceva il cognac, mi avvolse con un abbraccio dicendo: “Bèvine un sorso… Dove lo trovi uno migliore?”.
D. Muti?
R. Un sodalizio durato 19 anni, un rapporto particolare. Mi voleva molto bene e io lo adoro. Per anni alle prove gli facevo trovare una caramella Golia sul leggio. Sapeva che la mettevo io…
D. E Lorin Maazel?
R. Mi voleva bene. Ricordo un’Aida, la prima che feci. Il mio violoncello arrivò alla nota più alta perché avevo studiato bene il pezzo. Mi disse: “Brava, signora!”. Da allora mi adorava. Nell’89 facemmo un concerto a Lecce, a Palazzo dei Celestini. Era nato a Parigi da una famiglia di ebrei russi. Un grande talento che abbiamo perduto troppo presto. Avevamo programmato una cosa insieme alla “Scala” per il 2015…
D. Pavarotti?
R. Veniva alle prove con l’amante (Nicoletta Mantovani, ndr). Insieme facemmo un “Don Carlos” e una “Messa da requiem” di Verdi con Abbado all’Anfiteatro Epidaurus (in Grecia, nel Peloponneso, risale a 2500 anni fa: acustica perfetta, si sente anche il rumore di una monetina che cade, n.d. r.) e poi con Muti sotto le Mura di Gerusalemme: mi sentii trasportata in quell’epoca. Due eventi molto emozionanti...
D. E Carreras?
R. Lo conobbi nell’Andrea Chenier ai tempi di Maria Callas e della Tebaldi, quando il direttore della “Scala” era Gianandrea Gavazzeni… L’ho sentito pure ai tempi della sua malattia. Sublime!
D. Placido Domingo…
R. Un uomo molto galante, gli piacevano le donne. Quando faceva avances Abbado sorrideva…
D. Lei pensa che 60 anni sono uno step troppo basso per andare in pensione?
R. Nel Nordeuropa ci vanno a 65. Qui invece si considera il lavoro di un interprete una professione di rischio, ridotta capacità di reazione e nervi saldi. Ma non sempre è così…
D. Dunque, Riccardo Chailly dopo Muti?
R. Tanta scuola all’estero, sia sinfonica che operistica: Berlino, Amsterdam, Lipsia. Penso sia la persona giusta per la “Scala”. Alla Scala occorre un direttore italiano e perciò la scelta di Chailly è la migliore.
E’ nata a Munster (Westfalia), dove ha studiato sino al diploma. Poi vinse un concorso alla “Scala” e a Milano ha lavorato per 30 anni (“28 anni più 2”). Nel 1966, col suo “Detmolder Trio”, vinse il primo premio indetto dalla radio di Amburgo che lanciava giovani concertisti e musicisti. L’input di una carriera in ascesa: tournée in tutto il mondo, con l’opera, con la Filarmonica della “Scala” e come solista di musica da camera. Ha 2 figli: Florian, fisico, che guida un gruppo di scienziati alla “Sony” di Stoccarda e Miriam, referente della stampa estera del Ministero degli Esteri tedesco. Sono bilingue: studi a Milano e poi a Berlino. E 7 nipoti che seguono le orme della celebre nonna: 2 suonano il pianoforte, 2 il violino, uno il corno, uno il violoncello: la settima ha solo 3 anni.
L’inverno vive a Cernusco sul Naviglio (“là ho ancora molte cose da fare”). Ora che l’estate scolora nell’autunno mediterraneo, è in partenza. Continua la vita di sempre: il 20 novembre il suo Trio darà un concerto a “Casa Verdi” (la home per musicisti in difficoltà voluta dal “cigno di Busseto”).
Siamo nel giardino della sua piccola casa di Morciano di Leuca, nel Salento meridionale. Come tanti, non ha resistito al richiamo quasi ancestrale di questa terra antica e magica amata da Federico II, il “Puer Apuliae”, alla sua energia, la sua anima. Un giardino che è anche un salotto dove si incontrano musicisti molto noti. Stamane c’è Antonio Amoroso, compositore nato nel Leccese (Alessano), famoso in Germania e la moglie Imgarde. Clima informale: si beve caffè, si mangiano dolcetti, si parla di Brahms (“Imparò molto da Schumann”), Muti, Carlos Klieber (“con lui feci “Tristano”, “Otello”, la “Bohéme”, il “Cavaliere della Rosa” di Richard Strauss: un genio noto solo agli appassionati perchè non ha lasciato registrato quasi nulla, “non volle far carriera”), del pianoforte di Horowitz, il più grande pianista di tutti i tempi: è a Casa Verdi, e di un mondo ormai perduto, quello dei grandi direttori: uno a uno lasciano la scena: “Una favola che finisce…”, riflette. Lo scirocco fa stagnare la tristezza agli angoli del cortile di via Pace avvolto da un silenzio di cristallo.
Sorride: “Perché ho preso casa in Salento? Venivo ogni tanto a trovare gli amici. Mi sono fermata perché mi piace lo spirito di vita, la ricchezza umana e materiale di questa gente, la sua semplicità, ma anche per la storia della Puglia, con cui la Germania ha tante affinità, a cominciare da Federico di Svevia. Qui la bellezza è ovunque e io mi trovo bene…”.
Così bene che il 25 maggio è stata a Gallipoli col suo “Trio Classico di Milano” per un concerto al Teatro “Garibaldi” (chiamata dall’assessorato alla cultura, il Conservatorio “Schipa” di Lecce, Lions, Fidapa, BPW Italy, Accademia dei Serenati) per il Festival Internazionale Itinerante “La Voce degli Angeli”: ha proposto Clara Wiek Schumann, moglie del compositore, amica di Brahms, la più grande pianista del suo tempo (Piano trio opera 17 in sol minore) e Fanny Meldessohn Hensel (Piano trio opera 11 in re minore). Introdusse la prof. Maria Primiceri, Massimo De Biasio (violino), al piano Keiko Hitomi Tanizawa, lei al violoncello.
Domanda: Signora, partiamo dall’inizio?
Risposta: Provengo da una famiglia non di musicisti ma curiosi della musica e dell’arte in genere. Sin da bambina ho amato la musica e a 10 anni ero ammaliata dai suoni, dagli strumenti e ho capito che sarebbe stata la mia vita. I miei genitori hanno assecondato la mia passione. Dopo il liceo mi iscrissi al famoso Conservatorio di Detmold, il “Musikhochschule”, non lontano da Munster, da cui uscii col diploma. La musica da camera mi ha sempre incuriosita…
D. Ricorda il primo concerto?
R. E come potrei scordarlo? A 11 anni, in un negozio di Munster, serenata in do maggiore di Breval. Era il 1954. Vinsi un pullover. Nella Germania del dopoguerra eravamo tutti poveri. Ricordo la gioia di mia madre: non doveva comprarmelo per ripararmi dal freddo… Poi nel 1966 vinsi un premio e così cominciai a suonare dappertutto. Arrivai così alla Scala: mi chiamò Abbado per l’Orchestra della Scala, poi ho suonato sin dall’inizio con la Filarmonica che aveva fondato. Vinsi il concorso e diventai secondo violoncello in funzione di concertino, sempre al primo leggio, sotto la mano destra del direttore d’orchestra.
D. Cosa ricorda di Abbado?
R. Sono stata molto amica di Claudio. Un aneddoto: mentre facevamo il “Loengrin” di Wagner, regia di Strehler, il re diceva una battuta: “Il sole è alto a mezzogiorno”. Ma sul palcoscenico era tutto buio. Lui mi guardava e sorrideva… Altro aneddoto: facevamo il “Wozzeck”, di Alban Berg, mi chiese la partecipazione dei miei figli, 10 e 11 anni: dovevano cantare e parlare in tedesco. Anche loro quindi hanno lavorato sia alla Scala che a Parigi per una tournée dell’opera. Era tenerissimo con i miei figli e chiedeva sempre di loro…
D. Leonard Berstein…
R. Il grande direttore d’orchestra era sempre molto gentile con me. Una volta suonavamo Stravinsky a Venezia, a lui piaceva il cognac, mi avvolse con un abbraccio dicendo: “Bèvine un sorso… Dove lo trovi uno migliore?”.
D. Muti?
R. Un sodalizio durato 19 anni, un rapporto particolare. Mi voleva molto bene e io lo adoro. Per anni alle prove gli facevo trovare una caramella Golia sul leggio. Sapeva che la mettevo io…
D. E Lorin Maazel?
R. Mi voleva bene. Ricordo un’Aida, la prima che feci. Il mio violoncello arrivò alla nota più alta perché avevo studiato bene il pezzo. Mi disse: “Brava, signora!”. Da allora mi adorava. Nell’89 facemmo un concerto a Lecce, a Palazzo dei Celestini. Era nato a Parigi da una famiglia di ebrei russi. Un grande talento che abbiamo perduto troppo presto. Avevamo programmato una cosa insieme alla “Scala” per il 2015…
D. Pavarotti?
R. Veniva alle prove con l’amante (Nicoletta Mantovani, ndr). Insieme facemmo un “Don Carlos” e una “Messa da requiem” di Verdi con Abbado all’Anfiteatro Epidaurus (in Grecia, nel Peloponneso, risale a 2500 anni fa: acustica perfetta, si sente anche il rumore di una monetina che cade, n.d. r.) e poi con Muti sotto le Mura di Gerusalemme: mi sentii trasportata in quell’epoca. Due eventi molto emozionanti...
D. E Carreras?
R. Lo conobbi nell’Andrea Chenier ai tempi di Maria Callas e della Tebaldi, quando il direttore della “Scala” era Gianandrea Gavazzeni… L’ho sentito pure ai tempi della sua malattia. Sublime!
D. Placido Domingo…
R. Un uomo molto galante, gli piacevano le donne. Quando faceva avances Abbado sorrideva…
D. Lei pensa che 60 anni sono uno step troppo basso per andare in pensione?
R. Nel Nordeuropa ci vanno a 65. Qui invece si considera il lavoro di un interprete una professione di rischio, ridotta capacità di reazione e nervi saldi. Ma non sempre è così…
D. Dunque, Riccardo Chailly dopo Muti?
R. Tanta scuola all’estero, sia sinfonica che operistica: Berlino, Amsterdam, Lipsia. Penso sia la persona giusta per la “Scala”. Alla Scala occorre un direttore italiano e perciò la scelta di Chailly è la migliore.