"Shukran!". Sono stato a un matrimonio arabo

di FRANCESCO GRECO - Musica ad alto volume, belle donne dai bellissimi vestiti dai colori vivi, altre col velo, guantiere colme di dolci alla pasta di mandorla: che succede?

Si sono sposati i vicini, tornano dal municipio di Alessano (Palazzo Legari), sono arabi (Marocco). Esco per fare gli auguri ed eccomi invitato al matrimonio di un ragazzo di Casablanca e una ragazza di Fez (nel Marocco montuoso dell’interno). “Si sta sposando mio figlio… Vieni alla nostra festa?”,  la madre dello sposo insiste, sorride.

Accetto. Curiosità sociologica, desiderio di conoscere altri popoli, culture, etnie, i loro usi, costumi, tradizioni.

Sediamo su divani comodi, con i cuscini verdi appoggiati al muro, tavola stracolma di delizie: ceci, datteri e sesami in piccole pirofile, dolcetti allungati. Poi tè alla menta, caffè, e ci regaleranno bomboniere di confetti e bob-bon azzurri. Ha preparato tutto la mamma della sposa, un’insegnante, come il padre.

Dalla via la musica prosegue in casa: vestiti di seta, tacchi alti, molto trucco, le quattro sorelle dello sposo ballano, sui tappeti petali di rose, forse è la danza del ventre, scuotono i fianchi, sono molto sensuali. Il ritmo è dettato da tamburi e tamburelli: batte forte il cuore dell’Africa. E dalle nostre mani.

Mi spiegano che rispetto alle feste nei villaggi del Marocco è poca cosa: lì durano anche 3 giorni. La prossima estate ci sarà la seconda parte, sono invitato da mò, ospitato da loro, il volo Brindisi- Roma-Casablanca dura circa un paio d’ore.
 
Chiedo allo sposo se in municipio c’è stato bisogno di interpreti: no, lui sa parlare e capisce l’italiano, e un po’ anche la sposa. Vivono e lavorano in Svizzera, è capo reparto in una fabbrica di pace-maker. Adora i viaggi, è appena stato in Polonia, in una lingua di terra: davanti il mare, alle spalle il lago: “Molto bello!”.

Arriva una bambino, avrà 7-8anni, lo guarda con orgoglio paterno: “E’ cresciuto!”, sorride. E’ nato da un altro matrimonio. Mi confida: “Volevo una moglie araba… Vuoi una moglie araba anche tu?”. Gran bella cosa la poligamia, a potersela permettere…
 
Da fuori la casa sembra piccola, ma dentro è grande: hanno dipinto le pareti con colori pastello, molto luminosi. Hanno fatto anche qualche disegno.

Ecco una sorella, sorride: “Ti piace il mio vestito?”, “Bellissimo!”, rispondo. E’ verde smeraldo, davvero bello. Va a cambiarsi e ne indossa uno bianco panna, ancora più bello. Gli arabi hanno bellissimi sorrisi, molto delicati, capelli nerissimi, occhi colmi di luce.
 
La musica esce da un grosso registratore accanto a una tv al plasma, schermo grande. A un certo punto il ritmo varia: “Questa è la nostra pizzica”, sorride lo sposo. Non sapevo che ne avessero una anche loro, ma se hanno il tarantismo avranno pure le danze che esorcizzano il ragno.
 
Spizzichiamo dolcetti, mangiucchiamo datteri, mastichiamo ceci e noccioline, apriamo sesami. Poi si alzano e ballano anche gli sposi. La madre dello sposo riprende tutto col cellulare: nel rione è molto amata: aiutava una vicina a gestire il marito 90enne malato e costretto a letto: è morto da poco e quando è tornata ha fatto le condoglianze all’amica in lutto.

Vennero anni fa per curare il marito, non ce la fece. Le ragazze si sono sposate, vivono in Terra d’Otranto. Mi sembrano tutti perfettamente integrati, sanno anche l’inglese e capiscono il nostro dialetto. Anche i bambini. Da cosa nasce allora il sospetto nei loro confronti? Abbiamo la brutta abitudine di evitare il dialogo, di rifiutare ciò che non conosciamo.

La musica quasi copre le voci, battiamo le mani a tempo, le ragazze lanciano gridi come se fossero nel deserto attorno al fuoco (tipico delle donne berbere). Hanno occhi pieni di luce, quella che piove verticale fra le dune e le palme.

Dopo il tè alla menta (alla madre dello sposo e delle ragazze piace, ma una notte hanno rubato il vaso dove tenevano le piantine davanti a casa), la madre della sposa libera il tavolo da tutte le guantiere: c’è il pranzo: linguine ai frutti di mare, un’orata enorme cotta sulla piastra, cozze aperte sul fuoco, pollo ripieno. Mangiamo con le mani. Piatti squisitissimi, me li aspettavo speziati, resto deluso.

So già la risposta, ma chiedo lo stesso al marito di una delle sorelle, che è del posto e fa l’operaio in Svizzera: “Vino niente?... Manco birra?”.

Aranciata e acqua minerale. Una delle ragazze è fidanzata con un portoghese di Porto, a cui il vino piace, dalle sue parti ci sono le vigne: anche lui lavora in Svizzera. 

Un’altra delle sorelle, sposata con l’operaio, vive a Roma (“affitti altissimi”), ha tre bambini bellissimi, una capelli ricci, difficilissimi da lavare: “Ora si sono un pò lisciati…”, sorride.
 
Una delle bambine che vive qui, V elementare, quest’anno ha recitato nello spettacolo di Natale, ricorda tutte le battute. Un’altra, sui 14, bellissima, prende la scopa per pulire il pavimento e quando arriva vicino a me cerco di levargliela per aiutarla, ma decisa me lo impedisce.
 
Ciò che attrae dei bambini e delle ragazze arabe sono gli occhi colmi di luce, come se guardassero le oasi del deserto, l’orizzonte infinito. E la loro positività verso la vita, hanno una sovrastruttura mentale light, e questo è un vantaggio. Ogni tanto mi chiedono se voglio una moglie araba.
 
La sposa si fa un selfie col marito che indossa una tunica rossa. Si leva il fez color panna: “E’ molto caldo..”, sorride. Me lo porge, lo osservo, me lo rigiro fra le mani. Poi la madre mi fa sedere accanto allo sposo e mi fotografa, mi riprende col cellulare ultima generazione. Sono molto divertito, distribuisco “Shukran!” a tutti.
 
Mangio il pesce con le mani e penso: questa è la gente da cui ci mette in guardia la cattiva politica? Che ci invade? Ci sono politici senza alcuna risorsa umana né culturale se non spargere terrore: i loro partiti ingrassano su paure irrazionali, scambiando opportunità per minacce.

Comprano le nostre vecchie case abbandonate nei centri storici svuotati e le ristrutturano. Lo sposo cerca un uliveto, mi chiede se ne conosco. Gliene hanno proposto uno a 10mila euro: “Troppi!”, dico. Prometto di cercarne qualcuno meno costoso, da 5mila. La suocera ne ha uno in Marocco, ma le ulive sono diverse dalle nostre. Saranno di un’altra varietà. “Cosa coltivate in questo periodo?”, chiede lo sposo. “Rape, cicorie, cavoli, verze… Verdura”.

Un altro bambino, seconda media, seduto vicino a me, da grande vuole fare il medico. Lo sposo dice che dopo la scuola media dovrà fare lo scientifico. La zia che vive a Roma gli propone “La Sapienza”, lo ospiterà lei.

Che state facendo di Storia?, chiedo. Mi parla di Carlo I che fu decapitato dal popolo perché non convocò il Parlamento per ben dieci anni.

Intanto la festa va avanti, tornano i dolcetti. Lo sposo mi spiega tutto, è un ragazzo intelligentissimo, parliamo di Tahar ben Jolloun, ma a un certo punto è tirato di nuovo al centro del salone, battiamo le mani a tempo: non è facile tenere il ritmo.

Penso che la cultura araba ha una grande vitalità, una forza ancora intatta, che respingerà ogni forzatura culturale e patologia teocratico-politica. Sono molto aperti mentalmente e curiosi dell’Occidente, rispettosi della cultura d’accoglienza, vogliono stare bene in Italia, relazionarsi con noi, per un reciproco arricchimento civile, umano e culturale.
 
Quando appare il tiramisù i bambini fanno “Ohoooo…” come nella canzone. Mi servono il piattino (“Shukran!”), ma vedo l’impazienza del bambino vicino a me e glielo passo. No, ne vuole un pezzo più grande, e le zie lo accontentano.

Con un’ampolla, la madre della sposa ci spruzza di un’essenza di rose, mi pare di capire, è la tradizione. Poi altro caffè e tè alla menta. “Sicuro che non vuoi una moglie araba?”, mi chiede la madre.
 
Col whatsapp le foto girano. Il padre del fidanzato portoghese risponde da Porto che il figlio è l’unico a non avere la veste lunga… Ridono tutti.
 
Una festa bellissima, tutto è andato bene, è stato così rilassante e divertente, la ricorderemo a lungo. Alla fine mi regalano un pacchetto di gomme americane di cui mi sfugge il significato, una piccola bomboniera con confetti e dolcetti e una grande con un’erba verde. La madre dello sposo dice che si chiama hennè e ha un buon odore. E’ la tradizione. Prometto di conservarla fra le cose più care.

E’ ora che vada, ringrazio, distribuisco altri “Shukran!”, la madre della sposa ha occhi grandi, faccio a tutti tanti auguri, sto per dire “Inshallah!”, ma mi trattengo: in tre ore non ho sentito nessuno accenno ad Allah.

A sera la festa riprenderà: la musica, i tamburi, il tè, i dolcetti, i datteri, le noccioline americane, i ceci, i sesami...

Una settimana dopo, al mattino, un paio di mutandine di pizzo, colore rosso fuoco erano appese alla finestra che dà sulla strada. “Shukran, fratelli arabi!”.     

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