Don Geremia Acri (intervista): «Accogliere significa vivere costantemente braccato dalla paura di non fare mai abbastanza»

di NICOLA RICCHITELLI – Quest’oggi scendiamo in strada fino a spingerci ai confini delle periferie, lì dove ad accoglierci troviamo don Geremia Acri che nella città di Andria dirige la casa di accoglienza Santa Maria Goretti, oltre ad essere responsabile dell'Ufficio Migrantes della diocesi di Andria e della Comunità "Migrantesliberi", scossa qualche settimana fa dall’incidente nelle campagne di Foggia. Tra le vittime infatti vi era Djire Djoumana, ospite in passato della comunità “Migrantesliberi”.

Una lunga intervista che affonda le proprie radici nella parola accoglienza, che vi farà meglio comprendere l’azione di don Geremia Acri, oltre a farci conoscere questo sacerdote tanto amato dai suoi cittadini e dai suoi fedeli.

Che posto occupa nella sua missione pastorale il verbo e la parola accoglienza?
R:«Il Verbo si fece carne. (dal Vangelo secondo Giovanni 1,14). Rivestendo la nostra umanità, il Verbo di Dio è ogni volto, ogni persona, ogni bambino che incontriamo lungo il cammino della fede. Per cui l’accoglienza ci aiuta continuamente a fecondato Dio per diretta esperienza.
L’Amore si fa’, “…non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. (cfr1Gv 3, 18-24). L’amore non fa preferenza, tutti sono inclusi, è per ogni persona. L’amore è capace di costruire fraternità e ponti. L’amore è concretezza e quotidianità. L’amore cristiano, e anche quello umano, può anche spingersi fino all’eroismo, ma dev’essere quotidiano e abituale nei gesti. ‘Dare la vita’ non significa solo ‘morire’ per gli altri, ma ancor prima vivere per gli altri. La carità non è un sentimento né un discorso, la carità è un fatto. L’amore che si alimenta di belle parole e non si traduce nei fatti è soltanto la macchietta dell’amore».

Perché accogliere può sembrare scomodo? 
R:«Accogliere è scomodo perché l’altro che arriva è uno sconosciuto ed è mistero, ognuno di noi lo è. L’altro che arriva disturba sempre, per questo l’accoglienza non è comoda e senza dolore. Ogni persona che nasce, entra nel mondo con dolore e pianto. “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”. "L'amore vince tutto, e noi cediamo all'amore"».

Perché dobbiamo accogliere?
R:«Come cristiani abbiamo dimenticato che la Parola di Dio è obbedienza. L’impegno dell’accoglienza nei confronti dei più poveri è radicato nel Vangelo. L’accoglienza è una necessità evangelica, che si scontra con le logiche imperanti del mondo come: indifferenza e individualismo.
Se il vento oggi spira a favore di una politica sociale economica escludente, razziale e xenofoba, dove mercenari e avventurieri populisti vogliono cavalcare per consenso il grido di disperazione di uomini, donne e bambini senza futuro, senza lavoro e senza dignità per riproporre politiche di terrore e paura, sarebbe bene che il mondo cattolico partecipasse con i suoi principi morali all’arena pubblica e dichiarasse non cristiano chi è contro l’accoglienza dei migranti, chi vuole promuovere muri, chi per interessi personali promuove la corruzione e non favorisce la meritocrazia e difende la democrazia».

Nella sua esperienza personale cosa vuol dire accoglienza? 
R:«Accogliere, nella mia esperienza personale, significa questo: vivere costantemente braccato dalla paura di non fare mai abbastanza per l’altro/a, vivere notte e giorno in tensione per l’altro/a, vivere per una ragione: “il bene della collettività”, della comunità. Accogliere è un dovere. Sì, utilizzo il verbo “dovere” per essere chiaro, diretto, sfrontato perché le Istituzioni si devono ri-educare al dovere. Le Istituzioni prima di propagandare e promettere devono agire, le Istituzioni prima di scendere in campo elettorale e fare proseliti devono scendere nel “campo dell’umanità ferita e sofferente”, sporcarsi le mani, mettere la faccia, dare fiducia, e non dormire la notte per il cuore che ti sale in gola. In questo momento storico particolare dove si sta perpetrando il “nuovo olocausto”, tutti indistintamente siamo chiamati come cittadini pubblici e civili a non rimanere indifferenti, sordi, apatici, ma ad accogliere per un “dovere morale”, inscritto nelle nostre coscienze erranti di uomini e donne. Per cui, oggi, ai significati già esistenti della parola “accoglienza” bisogna includere un altro significato ossia “dovere”. Il dovere, delle volte, violenta la vita di uomini e donne ma devo anche dire che l’accoglienza violenta ugualmente. Violenta nel momento in cui ti trovi di fronte giovani migranti solcati nel volto dal dolore, dalla fatica dove nei loro occhi possiamo scorgere il loro bagaglio ossia ‘il travaglio di un’esistenza’, perché solo quello portano sulle nostre rive, e come uomo prima e come prete poi sento l’obbligo di custodirlo, perché nel bagaglio si porta sempre qualcosa di personale, di intimo e loro portano la vita. Accogliere oltre ad inglobare l’accezione “dovere” non ha bisogno di palcoscenici ma di cuori, volti e mani che rivoluzionano un sistema, dove l’altro non è un numero ma semplicemente una persona come te, che ha bisogno di affetto, attenzioni, cure e cultura. Non dobbiamo e non possiamo dimenticare i tanti “ecce homo” e “crocifissi” del nostro tempo, perché «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire durante questo tempo» (Blaise Pascal)».

Perché l’Italia e l’italiano ha paura di accogliere?
R:«Perché: “Ogni volta che uno non ascolta la Parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore”. (dal Vangelo secondo Matteo. 13,18-19). La parabola del seminatore riassume ciò che l’Italia sta vivendo. Dal cuore degli italiani è stato rubato il sentimento di compassione, di solidarietà nei confronti dell’altro ed è stato innestato l’impulso dell’odio, e del rifiuto per il diverso.Forse un nuovo secolo catastrofico è alle porte se non svegliamo e mobilitiamo le coscienze a difesa della dignità della persona e del suo inestimabile valore. La dignità esige il rispetto e la promozione di tutta la persona, nelle sue componenti materiale, etico, spirituale. Dal valore della dignità della persona discende innanzitutto quello della vita umana. Questo significa riconoscere la sacralità della vita. La tutela e la salvaguardia della vita nella Terra dei Diritti dell’Umanità in questo tempo pieno di conflitti politici di effimero consenso deve essere il primo punto di un programma politico democratico, a servizio della comunità umana, altrimenti il sogno Europa muore e con sé intere popolazioni. Ricoprire un ruolo pubblico e politico impone un grande senso di responsabilità, un forte afflato per il bene comune, una visione lungimirante, componenti necessarie per determinare percorsi di emancipazione culturale, serietà amministrativa e processi di inclusione sociale, che favoriscono uno Stato di Valori Umani rendendo così possibile ogni giorno il dialogo, il confronto, lo scontro, l’antagonismo, la competizione per una polis plurale attiva e partecipativa».

L’Italia e l’italiano è davvero razzista così come lo descrive giornali e televisione?
R:«L’Italia e gli italiani non sono razzisti. Purtroppo come Paese e come cittadini stiamo pagando lo scotto di una politica che ha deciso di fare una propaganda di consenso elettorale sulla pelle di poveracci, esasperando i toni cercando lo scontro sociale. In tutto questo c’è anche la colpa dei media, poco documentati e poco attenti a raccontare esperienze positive di accoglienza e integrazione. Si sta portando avanti un modo di fare politica di bassa lega, creato per influenzare negativamente la realtà utilizzando l’informazione per trasformare i fatti con la semantica della propaganda. L’Italia oggi si trova di fronte ad uno sguardo storico politico miope e cieco, che non riesce ad identificare successi e fallimenti della globalizzazione, una grande osmosi, che ha coinvolto indifferentemente tutto il mondo. E così la situazione italiana sta diventando distruttiva perché da qualche tempo cerca di barcamenarsi con reazioni di chiusura e intolleranza alle trasformazioni rapide del tessuto sociale, economico e culturale, che cercano risposte sagge, rapide e concrete. L’Italia la deve smettere di scherzare con il razzismo e la xenofobia. Questo clima nauseabondo di odio per il diverso rischia di compromettere le radici civili e culturali della democrazia italiana».

Don Geremia, da italiani quindi cosa dovremo fare?
R:«Oggi come cittadini italiani siamo chiamati a valutare e prevedere i pericoli, che può correre la democrazia, se non è difesa sempre e in ogni occasione, resistendo agli attacchi della libertà, della giustizia, dell’uguaglianza. Ebbene perché come direbbe Don Luigi Sturzo “senza libertà, senza giustizia e senza uguaglianza non esiste democrazia”. Un cristiano, una società civile, che rivendica le proprie origini e radici cristiane, non possono, assolutamente, essere razzisti. La Bibbia dal primo all’ultimo libro racconta il contrario di: razzismo, intolleranza, separazione, muri…
Gesù Cristo, come afferma San Paolo nelle sue lettere, ha cancellato le differenze: non ci sono più Greci o Giudei, schiavi o liberi, circoncisi o non circoncisi perché Cristo è “tutto in tutti”. Una umanità integrata ed inclusiva».

Che opinione ha del nostro Ministro dell’Interno?
R:«Il libro sapienzale, della Bibbia, Qóelet ci dice: “Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo”. Questo è un tempo in cui bisogna amare di più l’avversario, costruire di più una società civile, curare di più i malati di spirito e ricordare al Ministro degli Interni, che esiste per tutto una durata: “un tempo per nascere e un tempo per morire…Un tempo per tacere e un tempo per parlare…”. (cfr Qohelet 3,1-8). Il monaco Silvano del monte Athos diceva: “Mio fratello è la mia vita”. Ogni persona è mio fratello (sorella), il Ministro dell’Interno, il Vice-premier è innanzitutto una persona, un uomo e come persona è anche mio fratello, fratello da amare, da accogliere, ma anche da educare al senso del rispetto, del limite, del buon senso. Un padre parla con i suoi figli, non con post o twitter né tanto meno per avere consenso, un padre è disposto a dare la vita per il figlio. Un politico che educa a far male e a farsi del male si rivela per quel che è: indifferente, cieco e amante degli interessi di parte e tornaconti. Il verbo potere è un verbo servile, che nella grammatica italiana ha la funzione di “servire” o aiutare altri verbi, ciò indica la condizione stessa di chi esercita il governo, di qualsivoglia attività pubblica o ecclesiastica, con la capacità di assumere attitudini umane e saldamente morali, per andare incontro ad obblighi di ufficio, che devono assicurare il bene comune, la dignità delle persone. Solo nel ri-mettere al centro l’umanità e la sua complessità, e ri-scattare il significato di potere e di governo possiamo ri-scoprire le nostre origini culturali, che hanno reso l’Italia e la sua Costituzione il più Bel Paese del mondo».

La tragedia dello scorso 6 agosto – tra le campagne di Foggia – ha investito la Comunità “Migrantesliberi” di cui lei è responsabile. Tra le dodici vittime c’era Djire Djoumana. Come sta vivendo questo momento lei e la sua comunità?
R:«La morte di Djoumana per la Comunità Migrantesliberi rappresenta la perdita di un figlio accolto, amato, curato, istruito e responsabilizzato alla libertà. Con l’affetto e la preghiera siamo vicini alla sua famiglia e ai suoi amici».

Chi era Djire Djoumana?
R:«Era nato il 07 Agosto 1982 a Sekou in Mali: Djire Djoumana, tra le 12 vittime della strage braccianti di Ripalta, nel foggiano, era giunto con l’emergenza nord Africa del 2011. Ospite della Casa di Accoglienza 'Gandhi' della Comunità 'Migrantesliberi' di Andria. Titolare di protezione sussidiaria, era una persona riservata, taciturna e pacifica, pensava spesso alla sua famiglia, alla moglie e ai suoi due bambini. Sin dall’inizio ha svolto piccoli lavori stagionali, prima di dedicarsi all’agricoltura si recava nei luoghi turistici come venditore ambulante, si spostava dal comune di Andria per raggiungere il luogo di lavoro. Dopo l’uscita dal progetto ha preferito rimanere nel territorio andriese affittando, con un connazionale, una casa in autonomia, mantenendo rapporti costanti con gli operatori e volontari della Comunità 'Migrantesliberi', suo unico punto di riferimento sul territorio nazionale. Ha sempre collaborato, anche se la sua apparente tranquillità era velata di nostalgia per la distanza dalla sua terra e dalla sua famiglia. Spesso ci raggiungeva per un saluto o un consiglio appena ne aveva la possibilità. Non amava bivaccare e le sue giornate erano dedicate quasi esclusivamente al lavoro. Sperava, entro l’anno, di ricongiungersi con la sua famiglia, ma un destino impietoso ha infranto i suoi sogni. Il 7 agosto, avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno. 36 anni non compiuti perché ha incontrato sorella morte».

Per molti la parola accoglienza ha il colore della pelle della gente che ogni giorno con un gommone attraversa il Mediterraneo, ma ricordiamo che nella Casa di accoglienza “S. Maria Goretti” – di cui lei è direttore – la parola accoglienza non ha colore. Le va di raccontarci l’opera dei volontari?
R:«L’opera quotidiana dei volontari della Casa di Accoglienza “S Maria Goretti” della Diocesi di Andria è encomiabile, sono le vere colonne portanti. La loro opera è l’esercizio costante della carità nei confronti dei più deboli senza distinzione di razza, colore e religione.
I volontari cercano di estirpare le tante spine dell’umanità che entrano in questa Casa: fili spinati, che arrestano i flussi migratori, segno della caduta valoriale della civiltà del benessere; birra alla spina, nella quale i nostri giovani affogano il mal di vivere, causato dalla logica del mercato che li scarta; spine nel fianco di tante donne abbandonate, di madri in dolore, di padri separati e senza fissa dimora...
I volontari di Casa di Accoglienza sanno che in questo luogo, il grembiule è d’obbligo, il cuore è prossimo, le mani sempre sporche e le mura custodi e intrise di quel profumo che solo la vera umanità espande. Casa Accoglienza è un cortile dalle mura ruvide, forti e custodi di umanità. Un selciato pulito di incontri per uomini, donne e bambini nessuno escluso. Una porta che offre ragioni di speranza e sa dar conto di tutti gli aspetti dell’esistenza umana, dove diventa carne quella cultura inclusiva a misura d’uomo. Ciò che rende significativa la nostra vita per gli altri, ciò che rende eterno il ricordo di noi, è la voglia di incidere positivamente nella vita degli uomini, con gesti quotidiani, autentici e sobri, dove l’ordinario diventa straordinario e le logiche mondane si capovolgono affermando la bellezza della vita con disarmante semplicità verità e giustizia».

Che peso ha la vostra azione per la città di Andria?
R:«Da anni e anni siamo impegnati nella promozione di una cultura inclusiva attenti a non escludere nessuno. Andria è una città fortemente solidale, che ci aiuta ad operare con determinazione per il bene della collettività. La Casa di Accoglienza “S. Maria Goretti” della Diocesi di Andria è considerata da tante persone come il luogo naturale per l’esercizio costante della Carità. Casa Accoglienza cerca ogni giorno di toccare e aiutare gli emarginati e i poveri offrendo interventi sul piano dell’assistenza sociale, sanitaria, della promozione umana del rispetto delle norme, dei diritti ma anche dei propri doveri. Un’opera, che dipende totalmente dalla dedizione e dal sacrificio di tanti volontari pronti ad offrire tempo e professionalità al servizio degli ultimi. Difatti il compito e il vanto della Casa di accoglienza Santa Maria Goretti è di occuparsi degli “ultimi secondo il pensare umano, ma primi nella considerazione e amore di Dio”, compito che vorremmo fosse sempre più condiviso da tutti».

Quali sono le difficoltà che incontra ogni giorno nel portare avanti la sua missione? I momenti più difficili e pesanti che ha dovuto affrontare per arrivare fin qui?
R:«Tante sono state e sono, minacce, accuse, calunnie, diffamazioni, indifferenza, delega… a cui ho dovuto, e continuo, far fronte durante la mia esperienza di servizio. Chi opera nel solco della Giustizia e della Verità deve essere ben consapevole di andare incontro a questo tipo di ostacoli, soprattutto quando l’attività è a tutela del bene comune e di tutti, ma si ripercuote direttamente o indirettamente su possibili arrivisti, predatori, carrieristi, arrampicatori, mafiosi e criminali.
Leggo e medito spesso la pagina del Vangelo di Matteo 5,1-12: “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”».
Non sono da solo, Lui il Maestro, Gesù Cristo, è sempre presente, come anche i tantissimi collaboratori, volontari, benefattori e sono molto di più rispetto a chi vede sempre il male ovunque e dappertutto, che sanno fare chiasso come l’albero che cade nella foresta.
Faccio fatica a capire una Comunità di credenti che si ferma davanti all’Eucarestia, che prepara nei minimi particolari processioni o altre manifestazioni, e fa bene, ma non pronta a fermarsi davanti a chi incappa nei briganti di oggi al povero. Qualcosa non torna. È come se l’Eucarestia fosse un Gesù diverso dall’altro sacramento scomodo che è il povero: è lo stesso Gesù Cristo. È più facile avvicinarsi a un pane, con la sua buona fragranza, che a una persona che puzza, che puzza in tutti i sensi. La chiesa non può essere chiusa o ingabbiata dentro le logiche del mondo. La Chiesa dev’essere sempre aperta alle sfide del mondo, dinamica nel servizio, coraggiosa di saper osare di fronte alle piaghe di questo tempo, schierandosi con rispetto, ma senza diplomazia».

Che futuro sogna per la sua città e per tutti coloro che ogni giorno bussano alla sua porta?
R:«Innanzitutto non volgendo le spalle e non delegando ad altri ciò che spetta ad ogni cristiano e cittadino: amore senza calcoli e indiviso, senza preferenze di persona, ma semplicemente amore. Quando uno ama con verità e mette in gioco la propria esistenza, inevitabilmente contagia gli altri e così si crea una cordata di solidarietà che rende possibile ciò che da solo risulta impossibile”
Una Polis carità. La politica è la forma più alta della carità, se per carità intendiamo capacità e volontà di relazionarsi con gli altri non come mercenari, ma come pastori che danno la vita. Sogno una comunità di uomini e donne che evitino promesse che realmente non si possono realizzare, in quanto la promessa è una forma di nuova schiavitù, perché si lega a sé, per tempo o per sempre, la persona che ciecamente si fida della parola data. E quando la parola data cade nel vuoto, a cadere è anche l'uomo.
“I poveri vanno amati come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del regno dei cieli, molto meno dei proseliti” (don Mazzolari). Non solo i poveri di cibo, di beni primari e vitali, ma anche il povero di relazioni, di cultura, di nazione….Anch’io mi sento povero e forse tutti dovremmo sentirci poveri perché tra poveri si condivide sempre quel poco o tanto che si ha».

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