'Restanza', visioni alla 'Notte Verde'

di FRANCESCO GRECO - CASTIGLIONE D’OTRANTO (Le). Il mantra ti echeggia nella mente mentre parcheggi nell’umida sera meridiana che turbò Enea sconfitto e incantò Ulisse vincitore: “Qui non c’è niente…”.

Ma davvero? La folla almeno c’è, vaga come anima purgante, pigra come oziosi filosofi della Polis. Se “non c’è niente” noi ci siamo e da folli più di Erasmo, lanciamo la sfida del secolo, del tempo, dell’utopia: la restanza (e tornanza).
 
VII “Notte Verde” a Castiglione (la nostra città del sole, la Macondo di Gabriel, l’isola che non c’è, la Supernova) ha scoperto i neologismi, password per districarsi nell’orwelliana Babele di segni che perfida ci avvolge, e offre intrecci e contaminazioni fra vecchio e nuovo, materiali e  spirituali, deliri surreali, metafisici: dalla via degli asini a quella del pane, semi perduti e ritrovati e frutti selvatici rinati, ricchi di antiossidanti, da cui si ricavano saponi, creme, ecc.

E’ l’ossessione magnogreca della bellezza, nostalgia del dna insonne.

A sud-est, dove dicono che “non c’è niente…”, c’è il tentativo di ritrovare la coscienza della bellezza (a dire di Dostoevskij salverà il mondo) per chi, come noi, è stato sospinto nelle paludi del relativismo etico e politico, da parte delle Casa delle Agriculture, i suoi meravigliosi volontari: the dark side of the moon che intercetta i trend che s’agitano nell’aria e nel suo plancton e nel sottosuolo oscuro del Sud nostro che sei nei cieli, che dà voce ai Sud del mondo, li scansiona, li svela, li nobilita, li metabolizza. Eterogenesi dei fini.

Qui per primi capirono le insidie della pompa “Chimica keep out” (rinunci al diavolo e alle sue pompe?), coltivarono grano e canapa sulle terre arse e abbandonate, intuirono la ricchezza dell’immigrazione dando un tetto, e una ragione di vita, ai rifugiati, oggi integrati.

Ma non è facile ricomporre il mosaico atomizzato dall’esproprio culturale dei talent e dell’omologazione social, lavorare a un mondo (e un uomo) nuovi, a una socialità includente, gratificante, dove “non c’è niente…”, e la sola ricchezza è la dignità.

Scirocco ci spalma addosso un raglio d’asino, colonna sonora della “Notte”: i bambini svegliano i ciuchi nella corte dei limoni. Giocano con loro, le vere star.
 
Il concept è ambizioso: costruire dal basso, collegarsi alla storia e alla memoria, riannodare i fili, rivitalizzare l’economia del territorio, per una via alla dignità, al reddito che la terra può dare, con le sue mille filiere e sinergie, se vista e vissuta, come direbbe Bertoli, “con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. Darsi un input, un alibi per la “restanza/tornanza”, oggi che l’ascensore sociale è rotto, ammortizzatori estinti, diritti svuotati: viviamo nella notte celiniana, dove “non c’è niente”, solo asini.

Ma c’è la “Notte” modulata sull’utopia e lo scandalo della speranza tessuti come arazzi barocchi su vecchi telai che battono il tempo del cuore e dell’Universo.

Darwiniana nel perseguire l’evoluzione della specie verso la bellezza, la dignità, la felicità: diritti inalienabili oggi sfregiati, negati. Rivoluzionaria nella restituzione alla parola della sua primitiva semantica: chiamare ciuchi gli asini.

E se Stefania Rizzo dipinge le vecchie tavole del tabacco, è segno che il tempo fluisce ininterrotto e insonne e noi con Cronos quando ci sorprende ancora l’io-io dei ciuchini.

“Notte” di amori e umori, odori da casbah e giardini di Babilonia, sogni e bisogni, visioni, contaminazioni, provocazioni, trasfigurazioni, affabulazioni sospese fra mondi, fertili, creativi protagonismi di più generazioni: lo studente orgoglioso delle radici ti indica il luogo dove sotto il Regno delle Due Sicilie si batteva il prezzo del grano, il sessantenne affascinato dal background dei pomodori di Aradeo.         

“Non c’è niente”, solo l’abbraccio materno della “Notte” arca di Noè vissuta come dono, densi archetipi di neo-Umanesimo, topos culturale del Mediterraneo mare nostrum. Rivivono i vicoli e le agorà, gli angoli più nascosti, intimi offrono mille messaggi, input dialettici donati dal bambino curioso occhi d’oliva e il vecchio sapiente “lucertole dalla faccia di dado”.

E mentre gli asini di Martina a rischio estinzione ragliano, marito e moglie da Spongano intrecciano il “paleddu” e ci scambiamo frammenti di vissuti, passaggi di conoscenze, scagliamo al cielo (Knocking on heaven door) ipotesi di futuro del secolo delle post-verità.
 
“Non c’è niente”, infatti SVIMEZ “scopre” che il deserto avanza, ce ne andiamo col trolley e il master con la littorina dei padri, legando l’asino al palo. Dove manco noi lo sappiamo, invidiamo chi resta qui avvinto da una forza alchemica, un’energia misteriosa. Sul cuore grava quel mantra infido pregno di fatalismo che ci hanno contagiato: “Qui non c’è niente…”.

Ma c’è la “Notte”, i magnifici ragazzi di Castiglione lavorano per rimuoverlo, convinti che la “nuttata” passerà, che a volerla vedere c’è ricchezza, felicità, bellezza, umanità tra i filari dei pomodori e il forno di comunità. C’è il fuoco greco che Prometeo ruba agli dei, la mission, gli avi non vogliono che abbondiamo le loro terre.
 
Raglia ancora l’umile asino idruntino sulle pareti della Grotta Romanelli a Castro: icona di resistenza e resilienza di questo popolo tenace e creativo, dai Messapi che domarono la pietra all’algoritmo e le app.

“Notte” di misteri eleusini, sacrifici a Demetra cui siamo devoti: un rapporto edipico. L’umidità (“serenu”) bagna i morbidi capelli delle ragazze di Magna Grecia belle come Athena e le ninfe, la pelle sfavilla di energia, i bambini dormono nei passeggini, una vecchia trascina una bicicletta ancora più vecchia. L’asino raglia, ha culacchi da darci, e ci ricorda che senza mangiare non dorme e che un tempo le bestie desinavano prima degli uomini.
 
E’ “Notte” alta e siamo svegli ormai quando, ubriaco di energia, lo sguardo colmo di dolcezza di chi si è riconciliato con se stesso perché ha trovato il suo aleph, come un gatto silenzioso, il popolo della “Notte” s’infratta nelle increspature del buio odorose di rosmarino.
 
E se Castiglione è un “santuario” pagano fra Europa e Mediterraneo, tramontana e libeccio, la messa è finita. Semi e talee sono stati messi a dimora, altri li porteranno il vento, gli uccelli, le formiche.

Ci si rivede nel 2019 per mangiare i frutti, e seminare ancora, cocciuti come muli, dove “non c’è niente”. E ci addormentiamo punti da un ispido interrogativo: se nell’altro secolo ci salvarono le vecchie zie, stavolta lo faranno i vecchi ciuchi di Castiglione, cuore di tutti i Sud dell’Universo? “I say a little prayer” direbbe la regina Aretha...

(ph credits: Veronica Garra)

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