Quel fenomeno antico del femminicidio

di GIULIANA CAZZATO* - Il movimento delle donne, recentemente, si è battuto affinché il termine femminicidio si affermasse nel discorso pubblico. Per i reati di genere, purtroppo, non sempre le pene sono eque, ovvero commisurate all'entità del crimine, come spesso la cronaca di questi ultimi tempi ci informa. 

Forse, vale la pena chiarire, in maniera precisa e dettagliata, cosa si intende per femminicidio, dove nasce, come nasce, perché si consuma, qual'é la situazione nel nostro paese, quali sono le pene per gli autori e le tutele per le vittime.

Il termine femminicidio é un neologismo introdotto per la prima volta dalla sociologa Diana Russel, che nel suo libro " De Pacific Of Woman Killing", tratta le cause principali degli omicidi nei confronti del genere femminile. 

Il concetto si estende aldilà della definizione giuridica di assassinio, divenendo violenza estrema da parte dell'uomo contro il soggetto donna in quanto tale e include situazioni in cui la morte diviene esito-conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.

Questo termine raffigura un fenomeno che non si limita a descrivere un omicidio perpetrato sul genere femminile, ma annovera tutta una serie di comportamenti che incidono sulla libertà, integrità, dignità e moralità delle vittime in questione. 

Si tratta, per lo più, di condotte caratterizzate dall'avversione maschile che, generalmente, si conclamano nell'ambiente sociale dove la donna vive, lavora e si rapporta e che sfociano, poi, in maltrattamenti, violenza psichica e fisica, sessuale, economica ed educativa; tali condotte rimanendo, il più delle volte, impunite, culminano quasi sempre con l'uccisione o, per lo meno, con il suo tentativo. 

Il fenomeno ha origini antichissime, malgrado il termine coniato per descriverlo venga ritenuto un neologismo. Tornando agli albori della società, è di tutta evidenza come essa fosse, nella maggior parte dei casi, incentrata sulla figura maschile in gruppi societari di tipo patriarcale che hanno indotto l'uomo a identificare la sua controparte come proprietà privata, subordinata al suo controllo e, come tale, priva di indipendenza e autonomia, del tutto incapace di autodeterminarsi. 

Questo distorcimento dei ruoli ha permesso di farci approdare a falsi stereotipi, in cui all'uomo era permesso di relazionarsi con il cosiddetto "sesso debole" in maniera violenta, aggressiva e denigrante, nonché umiliante.

Tale pregiudizio ha condotto la collettività sociale verso i sentieri della giustificazione di questo efferato delitto. E, viene dal passato con retaggi ancora presenti e drammatici, l'erronea e criminosa convinzione che l'uomo in questo atto sia mosso da un sentimento d'amore o da un istinto passionale incontrollabile, mentre la donna-vittima sia co-responsabile, in quanto colpevole di averlo provocato.

A questo punto, molti dubbi, molte domande potranno avere una risposta che ci fornirà uno spaccato di quel luogo che è stata la culla di questo turpe crimine. Ma dove nasce? Esso nasce, ahimé, nella casa natia, nella diseducazione genitoriale, nasce dalla violenza dei padri che si sentono autorizzati a educare a suon di sberle, nasce dalla manipolazione psicologica delle madri, che per sentirsi forti, chiamano in causa il "pater familias", assistendo mute alle vessazioni sulle figlie, quasi con sottile soddisfazione, nasce dal voler proteggere, a tutti i costi, il figlio maschio a discapito della femmina reietta, nasce già a livello embrionale quando, anziché il maschietto sperato, arriva una femminuccia, nasce nella primissima cellula sociale (la famiglia), da cui si pretende amore, protezione e comprensione mai avuta. 

Il femminicidio si consuma quando la donna viene considerata colpevole di aver trasgredito al suo ruolo, dove la sua parte è quella del soggetto mite e remissivo. Le cause possono radicarsi all'interno di una cultura greve e pregiudiziosa. 

Un altro indicatore di rischio altrettanto inquietante è rappresentato da una mente criminale e malata del proprio avversario.

Il maltrattamento o l'uccisione della propria partner, figlia, amica, collega o conoscente, reca l'impronta di una cultura convinta che l'uomo possa possedere una donna e, con la forza, obbligarla ad adempiere alle proprie aspettative lecite o non lecite che siano, la donna è vittima a prescindere in quanto tale. 

Questa falsa credenza rimanda, purtroppo, a un aspetto più complicato e recondito, ma spesso trascurato come quello psicologico. In molti casi, l'uomo non accetta l'idea di essere figlio di una donna, ne rigetta la maternità per motivazioni intime e personali o turbe psichiche prima fra tutte la paura di essere inferiore.

Questo aspetto, apparentemente e falsamente castratorio, porta nel soggetto fin dalla prima infanzia, fanciullezza, adolescenza, esplodendo nella giovinezza uno squilibrio in cui la tensione emozionale degli opposti non rispetta i ranges di base, da qui, l'avversione inconscia per la figura materna che si estenderà a tutto l'universo femminile, con accenti molto marcati alla propria compagna a cui attribuisce l'evidente prolungamento della madre e, in quanto tale, soggetto, irriverente e nocivo. 
Nasce, per cui, l'esigenza di dover necessariamente manipolare la vittima designata riplasmandola e riformattandola, usando violenza e coercizioni varie che, il più delle volte, terminano con la morte di quest'ultima e l'apparente e momentanea esaltazione, con conseguente appagamento egoistico del carnefice. 

Non è indispensabile porre l'accento su quanto sia effimero il soddisfacimento poiché, successivamente, questo atto lascia l'autore (del reato) in uno stato di prostrazione e penosa confusione con un pathos che, difficilmente, potrà essere superato.

Di rimando, la vittima, il più dell volte, appare sottomessa, gracile con un equilibrio caduco, quasi evanescente, sofferente per la mancanza del caregiver (quasi sempre quello maschile). 

L'esigenza di poter sopperire a questa mancanza, diviene e si incarna nella scelta quasi sempre di un partner che, in principio, si dimostra tenero e amorevole, per divenire, poi, l'estensione del padre autoritario e oppressivo. 

Detto ciò, si evince che causa determinante, oltre a quella di natura psico patologica, divenga quella culturale, paragonabile a un enorme puzzle i cui pezzi, riguardanti i pregiudizi culturali, risultano più evidenti, quasi tridimensionali e di cui è parte integrante anche il maschilismo, ripetutamente rifiutato, rigettato, esorcizzato, ma difficilmente removibile, dal momento che miete decine di vittime all'anno.

Negare il fenomeno come ancora in auge, è un modo per pensare che questi crimini siano frutto di raptus, gesti inconsulti, eccezioni, la cultura, diviene sessista e i risultati sono visibili dalle più disparate angolazioni, persino nel modo in cui viene annunciato un femminicidio, il quale è un fenomeno (quasi una moda) che deturpa l'intera società, senza distinzione alcuna di generi dalla notte dei tempi e che in Italia, solo da pochi anni, è finito sotto la lente dell'opinione pubblica e delle istituzioni.

I dati più recenti, contenuti in alcune indagini statistiche, denunciano una situazione che nel nostro paese (confermata per altro dagli agenti di polizia, dagli operatori del settore socio-assistenziale, legale e ospedaliero), riveste un ruolo prettamente domestico con dimensioni che sfiorano il 70%; la maggior parte delle vittime viene uccisa per mano di un familiare, coniuge, convivente, fidanzato, amante o ex compagno. 

Di fronte a una situazione così allarmante e di tale portata, si è cercato di correre ai ripari emanando dei decreti legge, come il numero 93/2013, convertito in legge numero 119/2013, con l'obiettivo e l'intento di contrastare la violenza di genere, tutelare le vittime e cercare di prevenire il femminicidio.
Per ciò che riguarda gli strumenti di tutela a disposizione, sono state previste misure cautelative fra cui l'impossibilità di ritirare la querela per stalking da parte della vittima, se questa è stata posta in essere con gravi minacce (soprattutto con armi e reiterata nel tempo), la possibilità di revoca delle querele per altri reati, al fine di garantire la libera determinazione e consapevolezza dell'oppressa e la facoltà da parte del magistrato del tribunale dei minorenni a procedere per i delitti di maltrattamenti in famiglia, di atti persecutori e di violenza sessuale a danno di un minore, ai fini dell'adozione per l'affidamento dei figli. 

A tutto ciò, si aggiunge la facoltà per gli agenti di polizia giudiziaria di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero e in caso di flagranza, l'allontanamento di urgenza dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla donna da parte dell'autore del reato.
La strada da percorrere per garantire una piena tutela delle donne, è ancora dura e controversa, ma la prevenzione, grazie anche all'attività dei centri antiviolenza e delle associazioni per i diritti femminili, svolge un ruolo fondamentale nel supporto dei soggetti interessati. 

Altra misura cautelativa da non sottovalutare, altrettanto propedeutica e benefica, è la denuncia da parte della donna all'insorgere del problema, ovvero quando il tutto si presenta a livello embrionale, verso istituzioni o professionisti privati dove trova ragione un'appropriata terapia o counselling familiare, al fine di ristabilire equilibri psico-sociali precari e pregiudizievoli, grazie all'impiego di adeguate e opportune terapie proprie di ogni caso. Ciò detto, tutti vorremmo augurarci di poter arginare presto questa piaga dilagante che tanto incupisce la nostra società.
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*Psicoantropologa, psicoterapeuta

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