'Il Traditore': la recensione


di FREDERIC PASCALI - Molto spesso si fa fatica a immedesimarsi nelle scelte della vita di un uomo fino a tal punto che si è costretti a ripiegare su quelle che non sono altro che delle mere interpretazioni. Marco Bellocchio, alla sua  ventisettesima regia di lungometraggio, cerca di spingersi oltre rappresentando, con il suo consueto stile dalle forti connotazioni introspettive, la vita e il pensiero di Tommaso Buscetta, il più famoso pentito di mafia della storia della nostra repubblica.

La messa in primo piano del personaggio principale è un lavoro ai fianchi che parte da lontano e porta con sé il retaggio di un flashback che è la sintesi perfetta della personalità dell’uomo e del mafioso.

“La mafia non dimentica”, “la vecchia mafia non uccideva donne e bambini”, sono questi due postulati di un modus vivendi che non abbandona mai i ragionamenti di Buscetta e ne sviscera la parte più banalmente legata alla sua formazione e alla sua cultura di stampo criminale.
Il percorso narrativo della pellicola ruota attorno a questi presunti dogmi e si fa carico di condurci per mano attraverso le fasi di una vita che, anche nei momenti più duri, sembra accompagnarsi ad un’aura di intangibilità la quale, complice la bella colonna sonora di Nicola Piovani, veicola gli accadimenti con la levità tipica delle cose ineluttabili.

In questo contesto risulta particolarmente brillante la prova di Pierfrancesco Favino impegnato in un’interpretazione sicuramente non agevole. Il suo “Don Masino” ha una personalità che sin da subito cattura l’attenzione e prende in mano le redini di una sceneggiatura, scritta dallo stesso Bellocchio con Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo, che sconta la spada di Damocle della sintesi contornando e tratteggiando con mano lieve le figure di pressoché tutti gli altri personaggi, compreso un Giovanni Falcone forse troppo monocorde. Nella buona performance complessiva del cast una citazione è d’obbligo per il bravissimo  Luigi Lo Cascio, “Totuccio Contorno”, e Maria Fernanda Cândido, “Cristina”, che danno un tocco ulteriore al realismo della trama, così come la fotografia di Vladan Radovic e i suoi chiaroscuri impegnati a disegnare in filigrana il senso di un animo, quello di Buscetta, inquieto e indomabile.

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