Ma Siri non deve dimettersi


di FRANCESCO GRECO - Perché mai Armando Siri – stando alla vulgata che va dalle tv ai giornali - dovrebbe dimettersi? Per assecondare un grottesco moralismo da tricotèuse? Da basso impero? Da talk-show dove i peggiori si ammantano di posticcia purezza interrotti dallo spot del prosciutto cotto? Il viceministro dell’Economia è indagato, in un’intercettazione telefonica si dice che avrebbe dovuto avere 30mila euro per favorire un’azienda nel campo dell’eolico. 

Tutto qui? Se tutti quelli che finiscono sotto inchiesta dovrebbero dimettersi non resterebbe più nessuno, neanche il sindaco del paese e le istituzioni sarebbero desertificate. A parte il volgare ricalcare che Siri fu socialista da parte dei forcaioli di sinistra sempre in stand-bye. Il Pd in primis: rivendica, per dirne una, la vittoria dei socialisti in Spagna, ma qui, intra moenia, ha così infangato quel termine, quella storia, quella cultura, che si vergogna a dirsi socialista. Siri fu socialista, quindi è geneticamente, lombrosianamente segnato, vita natural durante, con la lettera scarlatta: e quelli del Pd stavano sotto al cavolo? Giocavano a burraco? Erano anime belle come la vispa Teresa? 

Il M5S in crisi di identità, e consensi, stando ai sondaggi, sta usando elettoralmente il caso-Siri per tentare di darsi una verginità compromessa, recuperare quel segmento di elettorato forcaiolo svezzato da Grillo dal ”vaffa-day” di dieci anni fa ai giorni nostri. Ma Siri non deve assolutamente dimettersi, poiché si avallerebbe l’enunciato devastante – nato con Mani Pulite e usato sino allo sfinimento - per cui è la magistratura che seleziona il personale politico, decidendo i sommersi e i salvati. Il che accade solo nei paesi delle banane, e dei manghi. Una profonda lacerazione del tessuto democratico e della stessa idea di democrazia, che così si trasfigurerebbe in una democratura. 

Il popolo perderebbe la sua sovranità sancita solennemente dalla Costituzione, per la quale è centrale e diremmo anzi sacra, e sarebbe ridotto a mero accessorio, spogliato del suo mood politico, ridotto a sociologia, a carne da macello televisivo prima, elettorale dopo (posto che non sia già accaduto sotto i nostri occhi trafficando con mouse, piattaforme, algoritmi). Sarebbe scardinato quel sottile equilibrio fra i poteri di cui diceva Montesquieu e che regge le democrazie (da quelle delle Polis ai giorni nostri), benché imperfette, ma preferibili a qualunque altro sistema politico secondo il Churchill-pensiero. Deve essere il corpo elettorale a dire chi deve fare politica e chi no, non le toghe, che non sono certo un potere neutro, ma a volte assurgono a soggetto politico (tant’è che da Di Pietro a D’Ambrosio ieri e a Franco Roberti oggi, sono candidati dai partiti, spesso in modo “blindato”). 

Spesso le inchieste finiscono in una bolla di sapone. Ma quando gli indagati sono assolti, ormai le loro carriere sono bruciate. Lo pensano in tanti, ma si preferisce cantare nel coro e chi ha parlato di responsabilità civile dei magistrati (Craxi, per dirne uno), sinora è rimasto folgorato. Così si continua a tenere in piazza, in attività la ghigliottina. Ma le contraddizioni della politica deve affrontarle e sanarle la politica, non la forca con la sua ombra minacciosa, sperando che il patibolo lo salgano sempre gli altri, e urlando come le oche del Campidoglio e chiedendo garantismo quando tocca ai “nostri”. Sarebbe una lacerante forzatura, oltre che una forma sottintesa di “commissariamento” della politica, un suo impoverimento, una sua tragica “diminutio”. Anche così si finisce dritti dritti nella sua plastica negazione.

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