Anche gli 'Eroi' hanno bisogno di aiuto

di IVANA CIAVARELLA* - Chi è L’EROE? Etimologicamente eroe (dal latino heros, dal greco ἥρως) significa “uomo forte, vigoroso e valoroso”, considerato nell’antichità greca un semidio che compiva gesta leggendarie. Ma la società moderna ha sentito la necessità di usare il termine eroe per identificare tutte quelle persone che mostrano virtù morali quali il coraggio, l'accettazione di esporsi al rischio del sacrificio a vantaggio altrui o del bene comune. In questa categoria è solito inserire tutti coloro che, soprattutto in situazioni di emergenza sanitaria, sociale, comunitaria, sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, come gli operatori sanitari, le forze dell’ordine, i volontari.

Ma abbiamo mai provato a chiedere loro se si sentono degli “eroi”? Cosa gli comporta, in termini psicologici ed emotivi, sentire la responsabilità di rappresentare tale figura mitologica? L’essere umano ha sempre il bisogno di attribuire un nome, un’identità, una caratteristica a qualcosa o qualcuno, sottovalutando spesso quanto quell’attributo possa condizionare le proprie credenze e comportamenti verso quella persona e, ancor peggio, quanto quella persona si sente in dovere di indossare il peso di quell’attributo affidatogli e non liberamente scelto.

La parola eroe porta con sé un peso psicologico considerevole (per quanto la società ne voglia modificare il significato) e questo non possiamo sottovalutarlo. Tutti coloro che in questa emergenza mondiale causata dal Coronavirus si sentono chiamati eroi sono sicuramente grati nel percepire dalla comunità orgoglio, riconoscenza, valore, ma ugualmente vivono nel timore di deludere quella stessa comunità che in toto si affida a loro.

Questo timore racchiude emozioni come paura di sbagliare ed essere causa della morte altrui o propria; rabbia per non avere tutti i supporti necessari nell’affrontare una pandemia; frustrazione per una stanchezza ed impotenza che non può essere espressa; tristezza per il voler fare di più ed essere consapevoli di non poter fare di più perché è ignota la cura del virus o perché non ci sono abbastanza risorse da distribuire alle famiglie in difficoltà o perché si è in pochi a causa del contagio che ha colpito i propri colleghi.

Questi “eroi” quindi, se così desideriamo chiamarli, ogni giorno vivono in silenzio le loro emozioni e le Istituzioni, di fronte a quel silenzio, non possono essere cieche o sorde. La pandemia è una situazione di emergenza, di carattere sanitario, ovvero una situazione critica fortemente stressante poiché rompe la routine quotidiana e preme fortemente sulle capacità di coping di ogni individuo, soprattutto in coloro che in forma diretta affrontano tale emergenza (come gli operatori sanitari, soccorritori, parenti delle vittime).

Si tratta di un’esperienza traumatica che espone la persona ad un alto rischio di sviluppare gravi sintomi psicologici (come il disturbo da stress posttraumatico). Il 23 marzo 2020 è stato pubblicato uno studio intitolato Factors Associated With Mental Health Outcomes Among Health Care Workers Exposed to Coronavirus Disease 2019, che indaga gli effetti della pandemia di Covid-19 su 1.257 operatori sanitari cinesi.

I risultati evidenziano nei soggetti della ricerca la rilevanza di sintomi depressivi, di ansia, insonnia e stress; dati coerenti ai risultati delle ricerche avviate in passato sui rischi psicosociali dello stress tra il personale sanitario durante le epidemie quali SARS ed Ebola. Il piano operativo di un’emergenza sanitaria deve quindi includere investimenti sul fronte psicologico se si vuole impedire che ad una emergenza sanitaria ne segue una emergenza psicologica: interventi psicologici precoci riducono il livello di stress posttraumatico e la probabilità di insorgenza di disturbi mentali, con notevole beneficio per l’individuo e, in ottica più ampia, per la collettività.

Possiamo quindi decidere di chiamare “eroi” gli operatori sanitari che rispondono in prima linea all’emergenza ma non possiamo idealizzarli come quegli eroi invincibili che fanno fede solo alle proprie capacità. È necessario ascoltare quelle richieste di aiuto silenziosamente assordanti e fornire un aiuto psicologico che sia per loro quella base sicura a cui sapere di potersi aggrappare e rialzare per affrontare sia la vita lavorativa sia la vita privata.

Perché non dimentichiamo che quegli “eroi” oltre ad essere medici, infermieri, OSS, volontari, soccorritori, poliziotti, sono anche padri, madri, figli, nonni. Possa la testimonianza di questa infermiera essere uno spunto importante di riflessione per tutti. “Sono un’infermiera e lavoro in pronto soccorso. Vivo quindi questa emergenza coronavirus a 360° perché quotidianamente sono chiamata a rispondere in prima linea ai casi di Covid19 che giungono presso il PS.

Ci alterniamo tra i vari ambulatori a seconda del codice d’emergenza e nei reparti dedicati ai Covid. È qui che viviamo la vera difficoltà, una difficoltà organizzativa, fisica, emotiva, psicologica; una difficoltà che anche queste mie parole non saranno mai sufficienti a descriverne l’entità. Le giornate di lavoro sembrano infinite. I pazienti aumentano di ora in ora e con loro cresce la nostra sensazione di disagio. Un disagio non legato al carico di lavoro (è noto a tutti che i PS non sono di certo dei reparti tranquilli) ma un disagio psicologico.

È questo ciò che quotidianamente ci opprime. La sensazione di non farcela, di non arrivare a fine turno, il non poter andare in bagno per 8 ore, la poca sensibilità alle mani a causa dei doppi guanti e la paura per questo di non riuscire a prendere un accesso venoso o effettuare un emogas, la sensazione claustrofobia causata dalla tuta, il sudore freddo sulla schiena che gocciola e ci fa sentire imprigionati, la paura che la maschera non aderisca bene al viso e la visiera che opprime le tempie, lo stare attenti a cambiare costantemente i guanti da un paziente all’altro, il vedere colleghi come alieni, il dover urlare di continuo perché la mia voce è debole e pacata.

Quando arrivano i pazienti cerco di essere il più dolce possibile, urlando parole accoglienti e di conforto affinché possano sentirmi, ma non so se la mia immagine rinchiusa in quella tuta posso dare loro un po’ di sollievo. Arriva il cambio turno, vedo i miei colleghi e do loro consegne ma cerco di essere sintetica il più possibile per limitare i contatti. Il pensare però che un’altra giornata di lavoro è finita non mi libera da quella sensazione di oppressione. Ho paura. Paura perché ripenso a tutto quello che ho fatto facendomi assillare dalla domanda se ho fatto tutto bene, se le mie prestazioni sono state efficaci o se ho dimenticato qualcosa, se ho disinfettato tutto.

E così ripercorro nella mente ogni momento di quella giornata di lavoro, focalizzandomi sui minimi dettagli. Arrivata a casa quei pensieri e quelle mille domande sulle mie prestazioni lavorative si trasformano in pensieri di paura verso la mia famiglia. Paura di poter essere fonte di contagio per loro. Evito quindi ogni contatto e con tristezza chiedo a mia nonna di starmi lontana. Il solo pensiero di poter intaccare uno di loro mi toglie il respiro. Il virus deve essere fermato e questo è possibile solo se rimanete a casa”.

* Psicologa barese
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