Miti: Oriana alla guerra




FRANCESCO GRECO - Diciamolo: quando vediamo queste sciampiste che a ogni ora del giorno e della notte spuntano dal video a leggere l’Ansa, corrugando la fronte come se fossero news epocali, fresche di parrucchiere e con la tettina maliziosa spuntare dalla camicetta, il nostro pensiero corre e loro.

A Montanelli con la macchina per scrivere sulle ginocchia (era il 1945). A Ettore Mo che consuma le scarpe nella casbah densa di odori di Baghdad. A Giuseppe Marrazzo e a Dafne Caruana Galizia. E alla “regina” Oriana con l’elmetto in Vietnam, o sotto la tenda nel deserto a incalzare Gheddafi.

Si potrebbe obiettare: il giornalismo ha subìto una trasformazione semantica. Vero. Però, che non si spacci per giornalismo questa passerella di ragazze in boccio con la borsa griffata a tracolla, che hanno fretta come avessero la pentola sul fuoco. Questo è altro: il politically correct e il bon-ton ci impedisce di usare i francesismi del caso.

A darci oggettivamente ragione, giunge in libreria la giovane (1992) palermitana Giorgia Medici con “Raccontare è testimoniare” (Oriana Fallaci e la scrittura del dissenso), Mauro Pagliai Editore, Firenze 2020, pp. 136, euro 15,00 (collana “Italianistica nel mondo”).
Oriana Fallaci fu una donna viscerale: o la amavi o la odiavi. Lei comunque era indifferente ai sentimenti che suscitava, l’invidia prima di tutto. Fu una giornalista da best-seller, e quando hai successo da queste parti destabilizzi lo status quo, per cui i mediocri ti augurano, come dicono al Tufello, le peggio cose.

Non c’è bisogno dell’analista per dare il giusto peso a un padre militante della Resistenza e alla sua bicicletta con cui faceva la staffetta partigiana, a 14 anni: ovvio che hanno influito sul suo carattere. Sullo sfondo la nonna paterna Giacoma Ferrieri, da cui pare aver assorbito i tratti di una personalità decisa, priva di chiaroscuri.

Attingendo a una robusta bibliografia, Giorgia Medici ricostruisce in modo avvincente la parabola di una giornalista-scrittrice maestra di stile, che ha segnato il secondo Novecento italico, e non solo. Ne esce il ritratto di una donna da trincea che pareva metabolizzare tutto, ma nel cui animo le cicatrici si accumulavano una dopo l’altra. E svela aspetti ignoti, o quasi: si sapevano gli amori infelici e gli aborti, l’incontro con Ratzinger e con Rino Fisichella (anche lei avrà avuto paura del buio cupo, del silenzio degli abissi) e della storia con Panagulis (“Un uomo”), come dei suoi furori contro l’Islam radicalizzato da cui metteva in guardia l’Occidente in tempi non sospetti (prima del settembre 2001), ma non di un tentato suicidio. 

Mentre si rileggono con un brivido le parole nel romanzo “apoteosi del dubbio”, “Lettera a un bambino mai nato”: “Stanotte ho saputo che c’eri, una goccia di vita scappata dal nulla…”.
Da procurarsi subito, perché la Fallaci incarna il “prima” (il giornalismo con la “g” maiuscola) e fa risaltare la noia del “dopo”, quello di oggi alla deriva: si è consumata la diaspora fra èlite e popolo, e questo non legge più i giornali…
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