Altamura da scoprire. Testa del Saraceno. Il volto che, muto, tanto racconta

La testa di Saraceno. La foto ritrae volutamente il retro, per rimarcare che ha un solo volto

ROBERTO BERLOCO - Altamura. Non è per niente facile notarla. Anche per chi si ponga a debita distanza, cercando la miglior visuale da via Onorato Candiota, vale a dire l’unico posto dal quale vien meglio mirare verso la sommità della facciata posteriore della cattedrale.

Qualcosa di troppo piccolo, in una posizione sì esposta, ma ad una lunghezza davvero notevole da quella dell’osservatore, a causa dell’altitudine delle imponenti pareti della chiesa madre, voluta dall’imperatore Federico II di Svevia e intitolata a Santa Maria Assunta.

Un elemento d’arredo esteriore, si potrebbe dire, tanto minuscolo rispetto alle volumetrie sulle quali poggia, quanto, al tempo stesso, degno d’attirarsi una tra le più lecite delle curiosità, quella per il passato civico, soprattutto quando in giuoco sono i suoi anfratti più in ombra.

Con qualche eccezione, difficile anche che se ne faccia menzione nelle guide rivolte ai turisti, oppure nei testi di storia locale più completi, tanto si tratta d’un particolare minuscolo e sfuggente, che scivola tra le descrizioni rilevanti alla maniera di un’anguilla tra i sassi posati sul letto d’un fiume.

E, invece, malgrado le dimensioni estremamente ridotte e il poco conto che, di norma, gli si attribuisce, quest’oggetto riesce a dir di sé, a sospirare curiosamente d’un arcano, a chiamare sempre più attenzione una volta che i contorni si facciano più precisi, lasciando sospettare e, poi, sempre più chiaramente intravedere, la sagoma di una … testa.

Già, una testa! Una che, forse, sarebbe impossibile da immaginare, considerando il particolare contesto nel quale è inserita. Anche se, in fondo, sarebbe potuta pure starci, fosse stata quella d’un Santo o, comunque, d’una figura sacra. Una che, pur solo per l’insolita collocazione, avrebbe ispirato ad ipotizzare chissà quale cristiano riferimento, alla maniera d’una reliquia talmente pregnante da non poter essere inglobata che, in via straordinaria, addirittura tra gli esterni della chiesa più importante del paese. Eppure una che, almeno in tutta apparenza, con la confessione del Vangelo c’entra come il polo settentrionale della sfera terrestre col suo opposto. E come potrebbe esser diversamente, visto che si tratta addirittura della testa d’un saraceno, vale a dire un soggetto che la storia medievale tramanda alla maniera d’un avversario giurato e, per la sua sanguinaria ferocia, tra i più temibili per il popolo pugliese?!

Che si tratti di quella d’un saraceno, prim’ancora che da una certa tradizione orale, è confermato d’acchito, quanto meno nel sospetto che possa esserlo, già nel guardarla più da presso, dal dato del colorito visibilmente scuro. Non passeranno inosservati, poi, lì a sormontarla, lo stampo d’un gallo, una bandieruola metallica e una croce, tutti elementi infissati da un unico ferro. In verità, le ultime tre suppellettili non debbono sorprendere. 

Se, difatti, si sorvola sull’ovvietà della presenza della croce, è il gallo un elemento che ricorre non di rado nelle tradizioni architetturali delle chiese europee del Medioevo. Ed è l’animale prescelto per ragioni naturalmente spirituali, figlie d’uno schema di evangelizzazione aduso, fin dai primi tempi della diffusione della Parola del Cristo, ad adoperare simboli d’immediato impatto e di riconoscibilità comune, oltre che nell’idoneità a rappresentare un determinato significato.

In parole di sintesi, il gallo incarna il senso della vigilanza, vale a dire quella sorta di guardia costante che ogni fedele di buona volontà dovrebbe tenere all’anima propria, durante il corso della vita terrena. Si tratta, cioè, del richiamo ad un atteggiamento votato all’attenzione verso tutto ciò che può comportare un pericolo o una compromissione alla saldezza della propria coscienza spirituale, allorché sia stata ancorata a quelle verità di fede che fanno da fondamento al magistero della Chiesa di Roma.

Naturalmente, si tratta pure di un richiamo allo stesso gallo che, all’incirca due mila anni fa, stando agli scritti dell’Evangelista Marco, cantò per due volte all’orecchio di quel tale Apostolo Pietro che rinnegò d’esser alla sequela di Gesù Cristo, sostanzialmente per paura di farne la stessa fine.

Di solito, inoltre, quando si trovava collegato ad un campanile religioso e restando nell’ambito di ataviche usanze, il gallo svolgeva pure l’utile funzione di fare da segnavento. Ed è a questa che si collega pure il vessillo in metallo poco sopra.

Che vi sia o no, poi, un nesso tra queste parti e quella testa di sotto, potrebbe passare, forse, per mistero. Ma, per mistero, non potrà passare di certo quella testa, con quel suo volto che, pur senza proferir parola, sembra tanto voler raccontare.

Databile al XVI o, addirittura, al XV secolo, essa se ne sta incastonata sopra una cuspide del luogo sacro più influente del paese, il simbolo religioso più potente del luogo, il riferimento centrale e più autorevole per la massa di quel volgo che s’era andato sedimentando dopo l’iniziativa dell’editto di rifondazione firmato dallo Svevo.

Sul finire del Basso Medioevo, ossia di quell’epoca in cui rinacque l’antica Altilia, poi in età Rinascimentale e, ancora, per tutta la fase dell’Età Moderna, essa dovette attirare le attenzioni delle genti locali, le cui interpretazioni, come accade, di regola, nel caso delle voci di popolo, diedero fuoco a spiegazioni singolari.

Tra queste ne fa capolino una che spicca per originalità, quanto per erroneità. Una che, comunque, tiene un proprio diritto a meritarsi una logica credibilità, considerando che raccoglie a piene mani sia da tradizioni storicamente sensate, che da lati ben noti della fisionomia psicologica dell’homo loci.

Secondo i suoi sostenitori, si tratterebbe d’una cervice bifronte, vale a dire d’una testa dotata di due facce contrapposte.

In effetti, le tracce di memoria sopravvissute, riguardanti, cioè, l’antico insediamento peuceta in epoca romana e, se si vuole, ancor oltre, fino all’avvento effettivo del Cristianesimo, sembrano testimoniare d’uno specifico culto pagano, quello dedicato a Giano, l’unico dio che presenta due volti pur avendo una sola testa e, per questo, detto Bifronte.

Si tratta d’una entità con radici antichissime, che affondano addirittura tra i primi battiti della storia di Roma, per giunta priva d’analoghi riscontri con divinità ellenistiche o di altre lande del Mediterraneo antico.

La coppia di visi riuniva, come in un unico momento, uno sguardo rivolto al passato ed uno al futuro. Col nome latino di Ianus (da ianua, cioè porta), Giano stava a significare, cioè, il passaggio del tempo, l’inizio e la fine, di norma quelli dell’umana esistenza, ma poteva trattarsi anche d’altro, ad esempio un evento bellico oppure un’azione collettiva rilevante.

Ora, anche per consolidata prassi nella genesi degli antichi impianti cristiani, risulta attendibile che la chiesa dedicata all’Assunta sia stata eretta proprio sul punto di un preesistente tempio pagano, le cui rovine, tra ciò che restava dell’originaria acropoli, dovevano essere visibili, forse allo stesso Federico II di Svevia al momento del suo passaggio, forse a chi, per lui o da lui delegato, avrebbe dovuto decidere dove erigere la fondamentale costruzione, vale a dire il baricentro spaziale della nuova città. La maggiore plausibilità che, però, originariamente, si trattasse proprio d’un edificio dedicato a Giano, sembra, nella sostanza, da far risalire ad una teoria di Vitangelo Frizzale, un dotto canonico vissuto nel corso del XVIII secolo, il quale, a sua volta, deve essersi poggiato su fonti disponibili fino al suo tempo, tra le quali una ricostruzione delle origini più remote dell’urbe murgiana, circolante già da almeno due secoli. Assumendo per esatta, così, l’informazione che il duomo altamurano sia sorto all’interno di un perimetro dedicato al dio dai due volti, è gioco d’immediata resa l’associazione che quella testa, campeggiante, ancor oggi, sopra una delle punte più alte del fabbricato, sia proprio da attribuire a Giano Bifronte.

L’altro versante, invece, dal quale la cultura comune ha attinto per la propria versione, tiene un carattere squisitamente psicologico. In base ad esso, i due volti materializzerebbero un particolare aspetto della personalità dell’uomo locale, capace di mutar faccia, per adoperare un’espressione che dia meglio l’idea, a seconda della convenienza.

Il principio emerge da un detto indigeno che così recita: “tu tinn do facc, cum a cudd d réite la chijssa rann“, ovverosia, dal vernacolo tradotto in lingua italiana: “tu tieni due facce, come quello di dietro la chiesa grande”.

Una definizione che trae legna da un fatto leggendario che si vuole accaduto prima che iniziassero le attività di costruzione della Cattedrale: Federico di Hohenstaufen avrebbe deciso di acquistare il suolo, dove sarebbe sorto il sacro tempio, trattando direttamente col suo proprietario, un uomo del luogo. Questi avrebbe ceduto il terreno inizialmente ad un certo prezzo, salvo decidere di aumentarlo dopo aver appreso che, proprio lì, sarebbe stata creata addirittura la chiesa principale d’un futuro centro urbano. L’imperatore germanico, irato dall’interessato cambio di atteggiamento da parte del venditore, avrebbe allora caricato il furbo venditore, dapprima accusandolo di aver due facce e, dipoi, facendogli tagliare la testa. Come avvertimento al popolo che si sarebbe formato, perché non venisse dimenticato quell’episodio e per quale ragione questo fosse accaduto, avrebbe infine ordinato di posizionare la scultura d’un capo a due volti sopra la cattedrale, quando i lavori fossero terminati.

Alla fine, sarà il caso di alcune circostanze a far scudo contro quella che si conforma alla maniera d’una diceria popolana, la quale avrebbe rischiato di prendere un tale piede di consuetudine, da financo determinare la penna di autori in buona fede e per nulla a digiuno di onestà d’intelletto, a finire per sublimare a verità storica un dato che, di questa, conteneva soltanto l’apparenza.

Durante alcune recenti operazioni di pulizia e restauro delle superfici della Cattedrale, quella testa, avvicinata dagli addetti ai lavori, ha difatti svelato il suo vero volto, cioè l’unico. Una sola faccia di una testa, quella appunto d’un infedele dalla pelle scura, scolpita nella pietra e issata sopra una degli spigoli più elevati della chiesa madre, durante un’epoca, quella a cavallo tra Evo Medio ed Evo Moderno, in cui il pericolo di invasioni saracene si conservava ancora reale in Italia meridionale. E fu proprio questa minaccia la ragione stessa del manufatto, che svolgeva, quindi, una funzione apotropaica. Una, cioè, devoluta ad esorcizzare, particolarmente, la paura d’aggressioni da parte dei pirati saraceni. 

Rivestita d’una patina di rame, per ottenerne l’effetto affumato tipico dell’epidermide di quella genia di spietati razziatori, provenienti solitamente dalle coste dell’Africa settentrionale o del Medio Oriente, la testa lascia sporgere occhi e bocca, del bianco di cui è costituito il materiale pietroso adoperato per la sua fattura, mentre attorno alla stessa sono riconoscibili perfino le pieghe d’un turbante.

Oggi essa se ne sta ancora dov’è da cinque secoli, con lo sguardo rivolto ad Oriente, da dove si riteneva provenisse l’orda. Svetta lì, muta ed immota, ormai a ricordare d’un pericolo che fu, ma pure, facendo da sostegno a quel piccolo drappo spiegato, come a ricordar di tener sempre tese le corde della fede, e al gallo della vigilanza, come a voler scongiurare, ancor oggi, ogni rischio che provenga da tutto ciò che è male per l’anima.

ph: Chiaromonte

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