Altamura da scoprire. Campo 65. Da area di prigionia a luogo della memoria


ROBERTO BERLOCO - Altamura. Per notarlo, basta appena una virata d’occhio, mentre si procede alla guida nel tratto di Provinciale tra Altamura e Gravina in Puglia. Una nota inattesa e inconsueta del paesaggio murgiano. Un improvviso, involontario tuffo dentro un rivolo sopravvissuto d’un fiume di storia che, qui, ebbe un dì a scorrere. E, s’avverte anche se quello sguardo di sfuggita dovesse durare meno d’un istante, una che deve averne da raccontare di sé, se rimane ancora integra nel suo elemento, se colpisce tanto e, tanto in breve, d’accendere forte la scintilla della curiosità.

Una singolare visione che sta raccolta in una delle tante stanze della storia, una delle più grandi poiché destinata a contenere non solo un passaggio di quella locale, ma pure un frammento significativo d’una assai più ampia e, da sola, capace d’importanti capitoli della narrazione del Novecento.

Naturalmente, se la curiosità prendesse a farsi largo tra i movimenti dell’interiorità, cominciando a premere come una carica di vapori sotto la bocca d’un vulcano, fino ad esplodere e ad averla meglio su qualunque dovere della giornata, sarebbe comprensibile perfino interrompere la marcia lungo la strada, per cercare una svolta e correre a guardar da vicino.

Di sicuro, c’è pure che, una volta che si sia raggiunto il punto, davanti a due colonne che, con lo spazio che tracciano nel proprio mezzo, demarcano l’ingresso e sembrano quasi star lì di guardia, e allorché, con l’avanzare a piedi oltre, si vada guadagnando una prima vista più ravvicinata di quanto prima s’era appena scorto, il passo potrebbe non esser più così spedito, al punto anche d’arrestarsi completamente su deciso invito degli occhi, rapiti da una prima, attonita contemplazione.

Già, perché lì davanti, a poche decine di metri, s’elevano le prime decrepite pareti di edifici appartenuti ad un altro tempo, sicuramente  lontano, ma non tanto, comunque, da far pensare ad uno di cui non possano ricostruirsi eventi e circostanze, o presentirsi significati e immagini.

Una serie di manufatti, tutti rientranti in una manciata di definite tipologie di struttura, tutti con lo stesso tasso di decadenza, tutti con un unico messaggio, quello d’un passato che ha goduto d’una propria dignità e che, ora, trova merito d’esser ricordato.

Ricordato. Si. Come nel destino di quei luoghi dove l’avvenimento dell’umano respiro non sia stato invano. Come mistico estuario di quei sentieri esistenziali che siano stati condivisi, nella gioia o nella sofferenza, senza poter evitare d’incrociarsi, ancora e ancora.

Ricordato. Come, anche, nel merito di qualcosa che s’accompagni ad un insegnamento, fondamentale quando esso si concreti in un messaggio che vibra d’umane verità e moniti morali, tutto utile, pregiato humus per la formazione delle nuove generazioni.

Ricordato, per mai essere dimenticato. Come mai potrebbe accadere che scivoli via dalla mente ciò che, valicato l’ingresso e procedendo oltre i primi fabbricati, prenda ad apparire finalmente nell’intera propria estensione: un dedalo di costruzioni fatiscenti, separate da terreni incolti e sentieri che, un giorno, dovevano essere stati camminamenti praticati.

Tutt’intorno, da ogni muratura ancora in piedi sino all’aria stessa che vi si respira, non c’è canto che non parli di vissuto. Uno che, però, finirà per sfuggire ad una immediata e chiara identificazione. Questo perché, a parte un cartello dov’è riportata la scritta “Campo 65”, manca ogni sorta di descrizione che informi di che luogo si tratti, oppure in che capitolo di storia questo posto sia inserire.

Per poter trovare, a chi nulla sappia, una luce che apra la conoscenza su dati materiali, bisognerà ricorrere a testi di storia locale che trattino di quest’angolo di territorio altamurano, oppure al racconto di qualcuno che lo abbia avuto a cuore, magari saziandosene sino a farlo diventare contenuto d’una memoria innata. In ognuno dei due casi, sarà il guizzo d’una sorpresa ad animare il volto di chi apprenda per la prima volta.

Forse, inizialmente, non crederà ai propri occhi o alle proprie orecchie. Forse, lì per lì, riterrà d’aver capito male. Forse, anche, penserà ad un errore da parte di quella sua fonte. Ma durerà poco. Rileggendo ancora, oppure riascoltando meglio, dovrà rassicurarsi che sì, si tratta, in origine, proprio di un … campo di prigionia! Un sito più noto alle cronache con quella sigla campeggiante all’ingresso … “Campo 65”!

Costruito dal regime fascista nel 1942, esteso per una trentina di ettari, contava poco più di ottanta stabili, in gran parte destinati ad accogliere prigionieri di guerra appartenenti agli eserciti che, all’epoca, combattevano l’Italia sul fronte nordafricano.

All’interno confluirono migliaia di soldati di nazionalità inglese, australiana, indiana e di tutte quelle che si trovavano rappresentate, durante la Seconda Guerra Mondiale, nei reparti del Commonwealth e dei loro alleati europei o africani. Dunque, non era inusuale che lingue come polacco, greco, albanese, francese o arabo, vi fossero parlate con la stessa frequenza dell’inglese.

Qui, in condizioni mortificanti a causa d’insufficienti misure igieniche e del poco concesso per alimentarsi, uomini di giovane età, ma di diversa estrazione sociale e culturale, si ritrovarono a condividere una prova esistenziale che, probabilmente, li avrebbe segnati in profondità per il resto dei loro giorni.

Davanti all’esiguità delle ragioni per sorridere, quell’umanità riuscì, però, a trovare abbastanza per non perdere il filo della speranza. Senza disprezzare quell’amara sorte, quei militi trovarono forza d’animo e genio per reagire alle dolorose circostanze, inventandosi uno stile di vita che avrebbe permesso loro di sostenersi soprattutto psicologicamente, per non perdere quel filo d’Arianna che, un giorno, li avrebbe riportati alla libertà.

Sotto lo sguardo vigile di guardie armate di fucili sempre carichi, i giovani prigionieri si diedero, così, ad organizzare partite di pallacanestro, pallavolo e, finanche, incontri di pugilato. Ma lo sport non fu l’unica via di fuga dal senso opprimente di quel loro umiliante stato. Anche la musica ebbe una propria parte, con l’allestimento di esibizioni da parte di gruppi improvvisati.

Fu a quel modo che riuscirono a rendere meno pesanti le catene della segregazione. Fu a quella maniera che si permisero a vicenda di continuare a credere nella gioia della vita, tenendo accesa la fiammella della fiducia, che non si spense fino ad un giorno d’Autunno del 1943, con l’ultimo degli istanti di quell’esperienza, quando l’avanzata degli Alleati portò alla liberazione per tutti gli ospiti del campo.

Il perimetro fu sgombrato, ma non rimase vuoto per troppo. Quasi contemporaneamente, infatti, cogliendo al balzo quella che si presentava come un’opportunità, il Comando anglo-americano v’insediò una sezione di addestramento per quelle unità jugoslave che avrebbero nutrito le famose “Brigate d’Oltremare”, vale a dire il grosso della principale resistenza partigiana all’occupazione nazista nei Balcani.

Neppure a guerra conclusa, però, quest’area perse vitalità. Verso la fine del 1950, il Governo nazionale ne fece un centro di accoglienza per rifugiati italiani provenienti dall’Istria, Venezia Giulia, Dalmazia e alcuni territori greci. All’oltre migliaio di esuli che vi posero residenza, toccò, così, il compito di raccogliere e perpetuare quello stesso dolore d’una esistenza di stenti lontano dalla propria casa, ch’era stato proprio di quei prigionieri di guerra di quasi dieci anni prima.

Dopo questa fase, il sito conoscerà una lunga parentesi di abbandono e degrado, fino a che, negli ultimi anni, principalmente per volontà di anime culturali riconducibili alla Sinistra cittadina, esso ha ripreso vigore nella coscienza generale, in grazia d’una serie di manifestazioni e nuove, qualificate attenzioni, sfociate, tra l’altro, nell’ufficiale riconoscimento di “Bene di interesse culturale particolarmente importante” da parte del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Ma la regìa di una valorizzazione che continua ancor oggi, è da riconoscere, soprattutto, in capo ad una Associazione, che prende il nome proprio di “Campo 65”.

Presieduta dall’altamurano Domenico Bolognese, che n’è fondatore insieme ad alcuni cultori di storia locale e che, tutt’ora, ne fa da cuore pulsante, l’associazione si prefigge di mantenere viva la memoria storica legata a questo speciale luogo.

Cosa, in particolare, abbia spinto Bolognese ad intraprendere una tale esperienza, va, però, oltre quel che potrebbe apparire un semplice interesse culturale.

A rivelarlo, sono certe sue stesse recenti parole: “sono figlio di un padre anziano, classe 1921. Aveva quarantotto anni quando sono nato. Sono cresciuto affascinato dagli spiragli di luce che filtravano attraverso la scatola nera dei suoi ricordi di guerra e prigionia. Poi, quella luce si è spenta improvvisamente, ma, quasi trent’anni dopo, nell’Autunno 2017, ha ritrovato un’altra scatola nera, molto più grande. Era sepolta in un campo abbandonato tra Altamura e Gravina”.

E’, dunque, un legame filiale, quello con un genitore che, da giovanissimo, con lo status di internato militare, aveva conosciuto la reclusione nella Germania di Adolf Hitler, a far da legna maggiore per quel fuoco della memoria che, oggi, tiene fermo e nitido il quadro d’un momento talmente pregnante per il passato della comunità locale. E’ un vero istinto, emotivo e morale, a porre il ricordo di quel che fu il campo verso Gravina al riparo dal rischio d’un irreversibile oblio. E’ una provvidenziale volontà, quella di un figlio illuminato da una ispirazione fiorita sul terreno dell’amor paterno, a dar oggi giustizia del tanto dolore provato da migliaia di altri esseri umani, la stessa giustizia che, sempre, prima o poi, sgorga naturalmente da ogni illecito castigo all’umana libertà.

Oltre che a chiunque porti interesse in materia, le cure dell’Associazione, che predilige anche lo strumento dell’interazione didattica, sono rivolte a quei “‘viaggiatori’ distratti”, a coloro che ignorano quel passato, soprattutto ai giovani che, pur studiando la grande storia, non trovano nei loro manuali alcun riferimento ad una vicenda ‘locale’ così emblematica” - si legge tra le righe d’uno stralcio iniziale di una pubblicazione che vedrà luce di stampa prossimamente, con l’intendimento che il messaggio espresso “possa imprimersi nella memoria, stimolare la conoscenza e indurre la comunità all’assunzione di nuove responsabilità: perché non solo il sonno della ragione, ma anche quello della memoria genera mostri”.

Ma quella del “Campo 65” non è l’unica emersione, collegata a fatti bellici remoti, ad esser oggi coltivata dall’Associazione che ne prende il nome. Poiché essa s’integra anche in un progetto più ampio, teso a sostenere altre parallele iniziative che, in comune, portano in dote la missione di svegliare e vegliare sul tema del ricordo, come quella del “Campo di Casale”, che richiama alle vicende della Grande Guerra, oppure come quella delle cosiddette basi militari “Jupiter”, risalenti al periodo della Guerra Fredda.

Tra le ambizioni a lungo termine in animo all’Associazione, l’operazione di bonifica e messa in sicurezza dell’ex area di prigionia. Un passaggio, questo, da considerarsi propedeutico al restauro dei vari fabbricati - che sono appena una parte di quelli originari - con l’obiettivo finale di convertirli in presìdi della memoria - mostre permanenti o archivi finalizzati alla fruizione da parte di scolaresche o ad attività di ricerca e studio in coordinazione ad istituti universitari - ma pure in economiche strutture ricettive, mentre, nelle superfici all’aperto circostanti, prenderebbero forma piste ciclabili e spazi da destinare alla pratica sportiva.

Se l’Associazione altamurana riuscirà nei suoi intenti, “Campo 65” s’evolverà, dunque, in un vivo e organizzato momento di edificazione morale, un’affidabile, concreta fonte di arricchimento culturale e, per il respiro di apertura che caratterizza lo spirito associativo, non solo a vantaggio delle comunità del territorio murgiano.

Chi mai avrebbe scommesso, fino a diversi anni fa, che quel che fu un campo di detenzione, con tutta quell’abbondanza di cupa atmosfera tipica di luoghi del genere, potesse andare trasformandosi in un vessillo della memoria, piantato nel bel mezzo dell’Alta Murgia, capace di tener vivo il ricordo di quel che fu, ma pure di ricreare e incarnare il senso d’una nuova, importante consapevolezza? Forse pochi o, addirittura, nessuno, oppure, forse, tutti … tutti coloro che, dentro l’animo, mai hanno smesso di credere che, dopo quello della vita, la libertà sia il bene più prezioso.

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