Riserva di legge, irretroattività sfavorevole e stato di emergenza (Prima Parte)

VINCENZO NICOLA CASULLI - Il principio della riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato fatto, in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato, prevedendone una sanzione.

Esso trova fondamento nell'art. 25, co II Cost., a tenore del quale nessuno può essere punito, se non in forza di una legge entrata in vigore prima che il fatto sia commesso.

In tal senso, si rinviene un forte legame tra il principio di riserva di legge, irretroattività della legge penale, tassatività, determinatezza e previsione, quali corollari del principio di legalità.

Tanto premesso, al fine di comprendere la rilevanza del principio della riserva di legge in materia penale, è doveroso interrogarsi su quale ne sia la ratio e quali siano gli atti che, in ossequio a tale principio, possono essere considerati fonti del diritto penale.

Anzitutto, la ratio della riserva di legge viene oggi pacificamente individuata in un'esigenza garantista di democraticità, per cui le scelte politico-criminali sono riservate al Parlamento. Questo è organo direttamente rappresentativo della collettività, in grado di esprimere al meglio la volontà popolare, attraverso un processo di formazione delle leggi, che garantisce una dialettica che coinvolge le minoranze.

Si tratta, dunque, di una ratio di natura sostanziale, garantista, che mira ad attribuire una competenza penale al Parlamento, caratterizzato da una piena legittimazione democratica.

Problema centrale è quello relativo all'armonizzabilità tra il principio costituzionale della riserva di legge e i modelli di integrazione tra norma primaria e la previsione proveniente dall'esecutivo.

In particolare, occorre chiedersi se atti del Governo, quali i regolamenti, i decreti ministeriali o i provvedimenti amministrativi, possano integrare le norme incriminatrici.

La questione si intreccia certamente con il tema della natura assoluta, relativa o tendenzialmente assoluta della riserva di legge.

In particolare, superando gli orientamenti precedenti, oggi la tesi prevalente qualifica la riserva di legge come tendenzialmente assoluta, ammettendo che la norma incriminatrice possa rinviare a norme regolamentari abilitate ad introdurre specificazioni tecniche, discipline di dettaglio.

In tal modo, le fonti sublegislative possono integrare, o completare la norma incriminatrice secondo diversi modelli di integrazione. In particolare, la dottrina suole distinguere tra norme integratrici e non integratrici del precetto.

Nel primo caso, la fonte extrapenale diviene parte integrante del precetto normativo, attenendo alla previsione astratta e dunque deve soggiacere al principio della riserva di legge.

Nel secondo caso, invece, si limita a descrivere il fatto concreto, rimanendo esterna al precetto normativo e dunque non è necessario che venga rispettata la ratio della riserva di legge.

Tanto chiarito, occorre chiedersi se il principio de quo consenta il riconoscimento, quali fonti di diritto penale, di taluni atti di produzione normativa diversi dalla legge in senso stretto.

In particolare, ci si chiede se possano avere incidenza penale anche quei provvedimenti provenienti da organi diversi dal Parlamento, ma comunque adottati alla stregua di un procedimento che coinvolge le Camere.

La questione, in passato molto dibattuta, attiene al decreto legge e al decreto legislativo, adottati dall'organo esecutivo a seguito di un procedimento che coinvolge il Parlamento, sia pure soltanto in un momento antecedente o successivo all'adozione del decreto.

Il primo è disciplinato dall'art. 77 Cost. che attribuisce al Governo, in casi straordinari di necessità ed urgenza, il potere di adottare provvedimenti provvisori aventi forza di legge. Il decreto viene sottoposto al controllo delle Camere, che possono convertirlo in legge o non convertirlo: in questo caso decade ex tunc.

Il secondo, disciplinato dall'art. 76 Cost., è un atto adottato dal Governo, su delega del Parlamento, che, in questo caso, svolge un ruolo antecedente e preventivo, rispetto all'adozione del decreto.

Ebbene, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che entrambi appartengono al novero delle fonti del diritto penale, in quanto in entrambi i casi il Parlamento svolge un ruolo di controllo, che garantisce le esigenze di democraticità, in ossequio alla ratio sostanzialistica della riserva di legge.

Nello specifico, nel caso del decreto legge, l'organo parlamentare svolge un controllo sì successivo, ma particolarmente pregnante, fermo restando che la mancata conversione del decreto in legge, ne determina una decadenza ex tunc. In questo caso, l'attribuzione del potere legislativo al Governo sarebbe inoltre giustificata dalla situazione di necessità ed urgenza, richiesta dall'art. 77 Cost., quale presupposto indefettibile per l'adozione del decreto legge. Ne deriva, come ribadito dalla giurisprudenza, che questo non può essere reiterato sine die, in quanto la reiterazione fisiologicamente esclude una situazione eccezionale e dunque temporanea. La Consulta ha inoltre precisato che, in sede di conversione, il contenuto del decreto può essere emendato, purchè si tratti di emendamenti omogenei: tra il decreto e la legge sussiste un rapporto di interdipendenza, tale per cui il contenuto dei due atti normativi deve essere necessariamente omogeneo.

Nel caso del decreto legislativo, invece, il Parlamento esercita un controllo preventivo, tanto che la giurisprudenza ha più volte chiarito che la legge con cui il Parlamento delega al Governo l'adozione del decreto deve essere chiara, analitica e sufficientemente determinata, dovendo necessariamente contenere la materia su cui legiferare, i principi direttivi e i termini entro cui il Governo può esercitare il potere.

La legge delega è dunque norma interposta tra la Costituzione e il decreto legislativo, derivandone che il decreto non conforme alla legge delega è incostituzionale per eccesso di delega e, dunque, per violazione dell'art. 76 Cost.

Nonostante le critiche di una parte della dottrina, la giurisprudenza ha chiarito che il ruolo svolto dal Parlamento in entrambi i casi consente di ritenere rispettata la ratio della riserva di legge.

Al contrario, non possono ritenersi fonti del diritto penale le leggi regionali in quanto si ritiene che il legislatore regionale non abbia potestà punitiva, non avendo una visione globale sulle esigenze presenti sul territorio nazionale. Per tale ragione si ritiene esclusa la possibilità che una legge regionale introduca, modifichi o abroghi una fattispecie penale.

La giurisprudenza costituzionale ha infatti escluso anche l'eventualità che la legge regionale possa intervenire in bonam partem, chiarendo che la delicatezza della disciplina penale, dalla cui applicazione può derivare la privazione della libertà personale, quale diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, impone che essa sia attribuita al solo Parlamento.

In tal modo viene assicurata una disciplina di extrema ratio, unitaria e garantista.

In un sistema multi- livello come quello attuale, anche le norme comunitarie possono avere una particolare rilevanza penale.

Nello specifico, si ritiene che tali norme possano intervenire in bonam partem, determinando la disapplicazione di una norma incriminatrice contrastante. Infatti, le norme comunitarie che producono effetti diretti, quale ad esempio la direttiva self executing, determinano la disapplicazione della norma interna con esse contrastante, laddove non sia possibile un'interpretazione conforme.

Difficile ipotizzare, invece, che il diritto europeo possa introdurre fattispecie incriminatrici o che, comunque, producano un effetto diretto in malam partem. A sostegno, potrebbero essere richiamati diversi argomenti, primo tra tutti, si ritiene, che l'Unione Europea presenti ancora oggi un deficit di democraticità che non consente di ritenere soddisfatta l'esigenza garantista e democratica, sottesa al principio della riserva di legge. L'impossibilità delle norme comunitarie di produrre effetti diretti in malam partem è avallata dalla giurisprudenza, anche sovranazionale, che ha più volte ribadito che la disciplina penale è attribuita alla legislazione nazionale.

Chiariti i tratti essenziali del principio di riserva di legge, è doveroso osservare come il dato letterale dell'art. 25, co II Cost., tracci un legame inscindibile con un principio ulteriore, anch'esso corollario del principio di legalità: l'irretroattività della legge sfavorevole.

Difatti, la norma citata da un lato attribuisce alla legge il compito di qualificare un fatto determinato come reato, dall'altro impone che tale legge entri in vigore prima che il fatto venga commesso.

L'irretroattività della legge viene sancita anche dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al Codice Civile, che prevede che la legge non dispone che per l'avvenire e dall'art 2 c.p., che fornisce una disciplina minuziosa, volta ad enunciare i criteri per la risoluzione di problemi teorici e pratici relativi alla successione delle leggi penali.

Il principio dell'irretroattività della legge penale è sancito anche dall'art. 7 CEDU, ai sensi del quale i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possono essere assoggettati a pene più severe di quelle applicabili al momento della commissione del fatto.

Chiarito quali sono le fonti normative nazionali e sovranazionali del principio di irretroattività della legge penale, è doveroso interrogarsi sulla ratio sottesa a tale principio.

In particolare, la giurisprudenza ha affermato che essa si rintraccia in una duplice esigenza.

Da un lato, infatti, l'irretroattività garantisce il destinatario della norma da possibili arbitri del legislatore, che potrebbe punire comportamenti in origine penalmente leciti.

Dall'altro consente, pur sempre in un'ottica garantista, di agire consapevolmente, prevedendo le conseguenze che possono derivare dalla propria azione od omissione.

Ne deriva che il principio dell'irretroattività della legge penale, pur essendo autonomo, deve essere analizzato congiuntamente ai principi di riserva di legge, determinatezza, precisione e colpevolezza, così come interpretati dalla giurisprudenza.

Nello specifico, gli artt. 25, co II Cost. e 7 CEDU impongono che le norme incriminatrici entrino in vigore prima che il fatto sia commesso, che siano chiare, precise e determinate poichè solo in tal modo il soggetto può agire consapevolmente, calcolando previamente le conseguenze afflittive della propria condotta. In tal senso, prevedibilità e calcolabilità delle conseguenze sono esigenze certamente sottese al principio dell'irretroattività della legge penale, il cui fondamento è costituito dall'art. 25, co II Cost.

Particolarmente rilevante è il rapporto tra irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole, tema dibattuto in dottrina e in giurisprudenza.

Ci si è chiesti, infatti, se lo stesso art. 25, co II Cost., possa porsi a fondamento anche del principio della retroattività della lex mitior, in un'ottica di favor rei.

Comprendere il rango del principio di retroattività favorevole e, dunque, comprendere se questo abbia rilievo costituzionale, consente di affermarne, o meno, l'inderogabilità.

Se in un primo momento si è dubitato della compatibilità con l'art.25, co II Cost, in una fase successiva, la giurisprudenza costituzionale, ha chiarito che il principio in questione troverebbe fondamento, sia pure non esplicito, all'art. 3 Cost., che sancisce i principi di uguaglianza e ragionevolezza.

In particolare, si è affermato che il principio di uguaglianza impone in linea di massima di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi si siano verificati prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto un'abolitio criminis o una modifica mitigatrice. Si osserva, infatti, che sarebbe contrario al principio di uguaglianza punire un soggetto più gravemente per un fatto che, se fosse stato posto in essere successivamente, sarebbe stato lecito o punito meno severamente.

La giurisprudenza costituzionale ha in tal modo affermato una fondamentale differenza tra irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole, chiarendo che la prima trova un fondamento diretto nell'art. 25, co II Cost ed è quindi principio inderogabile, mentre la seconda trova fondamento indiretto nell'art. 3 Cost. Ne deriva che solo il principio della retroattività della lex mitior è derogabile, sia pure alla luce di un bilanciamento condotto alla stregua della ragionevolezza.

Anche la giurisprudenza internazionale si è espressa a riguardo, riconoscendo che il principio de quo possa essere ricondotto all'alveo dei principi sanciti dall'art. 7 CEDU. Tuttavia, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominante, è da escludere che tale riconoscimento consenta alla retroattività della legge più favorevole di acquisire un'autonomia o di mutare la propria natura o caratteristiche. Essa resta un principio derogabile mediante la tecnica del bilanciamento ragionevole degli interessi in conflitto.

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