Cavani, l’inafferrabile


FRANCESCO GRECO
- “Domani ho i sopralluoghi. Speriamo che smetta di piovere”.

Forse non è credente, almeno non nel senso che comunemente si intende. L’agnosticismo rende solo la ricerca più urgente e severa. Il suo cinema è comunque pregno di una spiritualità ingenua, arcaica, primitiva. La stessa dei popoli che hanno sedimentato, arricchendolo nel tempo, il nostro dna: dai Sumeri agli Assiro-Babilonesi, passando per gli Egizi, Greci e Romani, fino ai Bizantini.

“Da bambina giocavo molto, studiavo molto…”.

Una religiosità obliqua, che impregna tutta la sua opera, condannata più o meno alla damnatio memoriae, nel senso che le tv d’oggi, modulate sul nazionalpopolare e il marketing, si guardano bene dal riproporre i tormenti mistici di “Francesco” e le acrobazie erotiche di Charlotte Rampling ne “Il portiere di notte”: altre pedagogie incombono oggi, alienanti e paranoiche. Si direbbe purtroppo.

“Complessa, ostinata, contraria, inafferrabile” (dalla prefazione), figlia di un architetto mantovano alto borghese e di una contadina che la domenica la portava al cinema nell’Emilia-Romagna dove il fascismo è la caricatura che ci rimanda Fellini in “Amarcord”, un nonno ateo e antifascista, Liliana Cavani (Carpi, 1933) è un enigma a cui accostarsi resta sempre problematico perché sai prima che potrai solo sfiorare, mai afferrare nella sua sontuosa ricchezza filologica, intellettuale, estetica.

“Essendo donna, non ho sempre trovato nelle religioni un’accoglienza aperta, completa. Anzi!”.

Ci provano con apprezzabili risultati Pedro Armocida e Cristiana Paternò in “Liliana Cavani. Il cinema e i film”, Marsilio, Venezia, 2021, pp. 264, € 14,00 (collana Saggi, Nuovo Cinema Pesaro, Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, collana fondata da Lino Miccichè), proponendo una serie di contributi di personalità di rilievo che illuminano vita e opera di un’intellettuale polisemica quanto unica e comunque basilare se si vuol capire un Novecento dalle infinite, laceranti contraddizioni, che ha sviluppato la “visione” soggettiva fra cinema, teatro, docufilm, tv (quando era ricerca e avanguardia), restando sempre coerente con sé stessa, coi topoi iniziali dell’indagine analitica che ispirano il mainstream del suo “laboratorio”.

“La speranza è che ogni essere umano nasca con la possibilità della libertà, del Bene…”.

Dagli anni al Corso Sperimentale di Cinematografia a Roma all’estate 2020, quando lavora alla sceneggiatura de “L’ordine del tempo”, di Carlo Revelli, fino all’intervista nella casa di Trastevere sotto pandemia, una donna non facile anche mediaticamente, oggi che fra “like” e influencer, il consenso è superficiale e di grana grossa, dettato da pedagogie d’accatto quanto sterili, la Cavani mostra pudicamente gli input della sua opera e i retroscena, lo sviluppo, la resa finale.

“Ci sono tante cose belle e tante tremende nell’individuo. Ignorarle sarebbe da sciocchi…”.

E se c’è un fil rouge che unisce il poverello di Assisi e Chiara, Galileo e Nietsche, De Gasperi e i sordomuti sulla Nomentana, Antigone, Medea e Ifigenia, Orfeo e Euridice, la Resistenza e il Terzo Reich, Pètain e le Clarisse, il Tibet e Dirk Bogarde (Max, nazista soffocato dalle ombre del passato, col suo orrido regalo), Gluck e Wagner, Einstein e Verdi, Patricia Highsmith e Malaparte e tanto altro, il lettore si affatichi mentalmente e lo cerchi da sé. Ha fra le mani il libro adatto.

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