Pasqua, tempo di scarcella o scarcèdde: curiosità


VITTORIO POLITO
- Per scarcella si intende una piccola borsa di cuoio che veniva di solito portata appesa alla cintura e nella quale si riponevano piccole somme di denaro. Per i baresi ed i pugliesi, la scarcella, o “scarcèdde”, rappresenta un dolce tipico pasquale preparato da mamme e nonne per figli e nipoti, da consumarsi a Pasqua o il lunedì dell’Angelo, detto anche “Pasquetta”.

Secondo Luigi Sada, la scarcella è chiamata “corruchele” nel Brindisino, “cuddura” o “puddica” nel Leccese o, “chelomme” nel Tarantino, per la forma e per il numero delle uova (che arrivano sino a 21 come a Salice Salentino), che rappresenta un grosso pane che la fidanzata dona al suo amato.

Secondo alcuni l’origine della scarcella, nasce come impasto di farina di grano duro, olio extravergine di oliva, pepe, lievito e sale, ingredienti di facile reperimento in tutte le case per una ricetta casalinga povera che veniva tramandata da madre in figlia. Nel corso degli anni, con la diffusione dello zucchero, soprattutto nelle famiglie benestanti, la scarcella diventa anche dolce con la sottrazione di alcuni ingredienti come pepe e sale e l’aggiunta di altri, più consoni al dolce e, a mo’ di decorazione, di uno o più uova. Il numero delle uova può arrivare fino ad una decina se la scarcella è destinata alla propria fidanzata. Infatti rappresentava il regalo prediletto tra gli innamorati: un secolo fa le giovanette erano solite donarle ai fidanzati nel giorno di Pasqua e le massaie salentine si riunivano per prepararne in grandissime quantità, mettendo insieme gli ingredienti che ognuna aveva a disposizione e trascorrendo così anche una giornata in compagnia. Nel barese invece non era la fidanzata a regalare la scarcella al fidanzato, ma la suocera che la donava alla futura nuora come dono benaugurante.

In Puglia la scarcella, si diversifica, a seconda delle zone, ma la sua caratteristica peculiare consiste nelle uova sistemate in superficie, tenute ferme da due strisce di pasta e assume forma di ciambella, di cestino, di colomba o di borsa da donna e, qualunque altra che possa sollecitare la fantasia dei bambini ai quali spesso viene donata.


Secondo alcuni il nome deriverebbe da “scarsella” con riferimento agli ingredienti poveri che la componevano. Più curiosa, invece, è l’ipotesi secondo la quale il termine “scarcella” risalga al verbo “scarcerare”, inteso come liberazione dell’uovo dalla pasta. Questo concetto si collega a un rito che fin dal 1451 si svolgeva presso il Santuario della Madonna dei Martiri di Molfetta. Nella seconda Domenica di Pasqua i catecumeni si recavano in processione al Santuario, in camice bianco, per ricevere il battesimo che li avrebbe “scarcerati” dal peccato originale, portando una scarcella confezionata con pane azzimo che poi consumavano sul posto. Spogliandosi della veste bianca che avevano indossato per tutta la settimana dopo Pasqua, si liberavano simbolicamente dal peccato (da qui Domenica in Albis). In alcuni paesi pugliesi sopravvivono ancor oggi usi e tradizioni legate a questi riti.

Per altri, infine, la scarcella, per la sua forma circolare, simbolo universale antichissimo collegato al movimento della terra e degli astri, era associata anche all’idea del mondo e del destino umano. Una sorta di emblema del movimento e del divenire orientato verso la chiusura del passato e l’attesa del futuro, a rappresentare la fortuna. Questo simbolo ricorre nella nostra cultura, come i rosoni che osserviamo sulle facciate delle chiese romaniche e gotiche, ed anche nelle iconografie orientali con analoghi significati di circolarità e di movimento.

Felice Alloggio, noto commediografo e scrittore, non si è fatta sfuggire l’occasione per scrivere una ironica poesia sul tema “scarcella” in dialetto barese.

LE SCARCÈDDE

di Felice Alloggio

Steve a mette tre scarcèdde jìnde a u stipe
addò stèvene taràlle e dolge d’ogne tipe
apprìsse a mè la patròne condrollàve
ca ogne cose, belle belle sestemàve.

A la mbrevvìse m'auandò nu sckande
e m’assedìbbe sùbete sope a na panghe,
pure Rosètte, megghièreme, sckandò brutte
percè addeventàbbe bianghe come a u strutte!

“Ce ha seccìsse? Le fermìche avònne fegghiàte?”
“Ma ce fermìche, nè vècchie nè appèna nate,
però mò ià fa’ u stesse nu quarandòtte.”
“Madònne Giuànne si’ viste na magnòtte?"
“Ma ce magnòtte e magnòtte d’Egìtte,
chiù pesce sora mè, probbie nu delìtte,
a le scarcèdde, acchiamìnde tu stesse
nge ammànghene le buche e pur l’ove allèsse!”

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da ”Florilegio barese”, WIP Edizioni.

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