Il blogger Savella e il suo libro ‘Povera Patria’

 di LIVALCA - ‘Povera patria! /Schiacciata dagli abusi del potere/ di gente infame/che non sa cos’è il pudore. / Si credono potenti e gli va bene quello che fanno; / e tutto gli appartiene/ Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni! / Questo paese è devastato dal dolore. / Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore? / Non cambierà, non cambierà/ non cambierà, forse cambierà. / Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? Nel fango affonda lo stivale dei maiali. Me ne vergogno un poco, e mi fa male vedere un uomo come un animale. / Non cambierà, non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà. / Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali, che possa contemplare il cielo e i fiori/Che non si parli più di dittature/ se avremo ancora un po’ da vivere. / La primavera intanto tarda ad arrivare’.

Questo il testo completo della canzone del cantautore Franco Battiato ‘POVERA PATRIA’, il cui titolo è servito al redattore editoriale freelance, pubblicista e blogger Stefano Savella per scrivere un libro che ha come sottotitolo ‘La canzone italiana e la fine della prima Repubblica’. Savella è un personaggio abbastanza famoso, non solo in ambito regionale, come direttore della rivista web ‘PugliaLibre’ e ritengo si sia servito di un cantautore (basta la parola, oggi come ieri, per rendere impegnato ed intellettuale ogni tema trattato!) per farci capire che il suo libro non elabora in modo generico i fatti dell’ultimo quarto di secolo, ma in maniera artigianale, non divistica preferendo i singoli avvenimenti.  Fu dal 1960 in poi che la cosiddetta ‘canzone d’autore’ prese piede in Italia, mentre in America Dylan dettava già legge e la Francia aveva ormai sfornato chansonnier di livello. Probabilmente Savella, in un rigurgito di sano ‘patriottismo’ meridionale, ha scartato le famose scuole (genovese, milanese, romana) e si è diretto verso il siciliano Battiato…più una mosca che una ‘bandiera’ bianca del panorama canoro.  Scriveva Castaldo di Battiato   su “la Repubblica” del 1991: “… con lui finalmente la canzone d’autore torna ad emozionare”.

Savella ci ricorda che nel dicembre del 1991, dopo che da alcune settimane Battiato aveva lanciato il suo inno ‘Povera patria’, l’allora presidente Cossiga, in quel periodo ascoltato ‘picconatore’, rilasciava una per certi versi sconcertante intervista a “Le Monde”, in cui affermava (onestamente andrebbe letto e riletto tutto lo scritto perché il presidente K sembra anticipare velatamente il ciclone ‘tangentopoli’) di comportarsi da ‘buffone’.  Comunque il compositore nativo di Jonia, provincia di Catania, è solo il primo di una lunghissima serie di cantautori che fanno da colonna sonora all’opera di Savella che, da consumato direttore d’orchestra, dimostra una perizia insospettabile in un trentenne che da poco ha iniziato a godere, patire, assorbire e smaltire i ‘carichi’ che la vita impone a, quasi, tutti. Il cantante reso famoso da ‘Le donne di Modena’ e ‘Sotto questo sole’ deve il successo a Caterina Caselli e a Vincenzo Mollica che lo raccomandò, ma anche ad un titolo ‘Giulio Andreotti’ da cui è difficile estrarre l’ironia dal momento che si presta a più interpretazioni, tutte ‘credibili’. Francesco Baccini con questo brano fece scrivere a Luzzatto Fegiz: “…non è una canzone contro l’uomo politico, ma semmai contro i luoghi comuni con i quali l’italiano medio tira a campare demonizzando di volta in volta questo o quello”.

Savella, con grande acume politico, ci ricorda che Andreotti (questa è storia, non canzoni) nel 2006, dopo aver chiuso con assoluzioni e prescrizioni i suoi processi, tentò di prendersi la presidenza del Senato, che finì a Franco Marini, ma ebbe l’effetto di dare una prima ‘spallata’ al Governo Prodi.

Gaber nel 1991 incise una canzone dal titolo eloquente “Qualcuno era comunista”, che aveva come inciso un verso che, gli arresti di politici dell’anno successivo, avrebbe reso elementare nella sua cruda e semplice verità “…perché Berlinguer era una brava persona”. Antonello Venditti, proprio nel 1992, stava lanciando nei suoi famosi giri estivi ‘Benvenuti in paradiso’ quando scoppiò la tangentopoli milanese che avrebbe raso al suolo la prima Repubblica e si vide costretto a rispolverare “In questo mondo di ladri”, che diventò l’inno ufficiale di tante manifestazioni. Savella nel suo appassionato lavoro di ricostruzione storica ci ricorda - lo avevamo già dimenticato! – che anche Sanremo ha avuto la sua storia di tangenti.

Nel 1991 il marchese Antonio Gerini, manager di molti cantanti e in particolare di Peppino Di Capri, denunciava alla Procura che il manager Adriano Aragozzini, per poter organizzare i Festival del 1989 e 1990, aveva dovuto pagare al sindaco e assessori della città dei fiori quasi un miliardo di tangenti.  Il caso all’inizio passa sotto silenzio perché il marchese è un ex socio di Aragozzini e la prassi insegna che gli ex, qualsiasi ex, hanno sempre un insano rancore da esternare.  Aragozzini si difese affermando che il suo percorso professionale era tale da giustificare l’affido e che se proprio volevamo dirla tutta aveva avuto come sponsor i presidenti del Consiglio dell’epoca Ciriaco de Mita e della Rai Biagio Agnes. Riporto integralmente le parole con cui Savella nel suo libro archivia il caso: “L’ex patron (Aragozzini) venne alla fine condannato in appello il 10 aprile 1995 e in Cassazione il 12 giugno 1996 a tre anni e sei mesi per corruzione, nell’inchiesta sulle tangenti per ottenere la guida del Festival del 1989, pena che sconterà con l’affidamento in prova ai servizi sociali. In seguito a questa sentenza dovette anche sborsare 200 milioni per i danni di immagine nei confronti del Comune di Sanremo, soldi che gli verranno restituiti dopo che un altro giudice, nel 2007, stabilirà che il successo del Festival del 1989 portò in realtà alla città dei fiori introiti diretti e indiretti. La posizione di Aragozzini per le tangenti al Festival del 1990 - inchiesta per la quale aveva scontato tre settimane di carcere - fu invece archiviata nel settembre del 1997”.

Savella chiude il suo atipico, insolito, raro, inconsueto, anomalo libro dedicato alla straordinaria coscienza sociale della canzonetta italiana con due pensieri di Fabrizio De André, un artista ‘peccatore dichiarato’ nella sua coerente dimensione di fragile-forte uomo: “...preferisco aprire i cancelli alle tigri piuttosto che cavalcarle…” e “Ma io non sono diverso da Mario Chiesa, mi manca solo la tecnica. Se potessi rubare, ruberei. Che tracotanza devo avere per sentirmi buon e onesto e puro, e che razza di schifezza sarei sempre a rompere i coglioni al mio prossimo”.

Una frase di Bacone che ha sempre affascinato chi sta redigendo queste note è la seguente: “Gli uomini negli alti posti sono tre volte servi”.  Se analizziamo il pensiero di De André e quello di Bacone, senza farci influenzare da ideologie ormai logore e fuori controllo, viene fuori una piccola morale: dal momento che, molti - per fortuna non tutti - sono soggetti a difetti endemici legati al modo di concepire il loro posizionamento nella società, sarebbe opportuno che la politica non fosse una professione a vita, ma un percorso di massimo tre lustri. In questo modo anche i rappresentanti della società civile che volessero ‘rendere favori al loro paese”, cimentandosi nell’agone politico, fossero esentati dal cercarsi un padrino elettorale.   Quel tre volti servi di Bacone, potrebbe tramutarsi nel… ‘servì’ a qualcuno.

In sostanza nella vita tutti dovrebbero provare a lavorare.  Lo scorso dicembre un parlamentare ormai in pensione mi ha detto: “Tutti accusano noi e non vedono quanti chiaramente non posso fare il nome delle categorie citate, che sono intuibili a discrezione degli interessati in prima persona) ‘lavorano’ meno di noi”.

Certo i voti bisogna anche prenderli e sarebbe opportuno tornare ai voti scolastici di una volta: se vuoi buoni voti, devi impegnarti.  Qui entrano in ballo i cittadini elettori (il terzo servo): devono maturare la consapevolezza che si vota per premiare chi ha dimostrato di meritarlo.  Il posto a tavola non si conquista con la fabbrica del voto e non sarebbe male che anche i cantanti tipo Mina e Pavone che vivono in Svizzera) e qualche altro che ha portato i soldi all’estero restituissero alla gente, che ha permesso loro di arrivare al successo, qualcosa… magari pagando le tasse in Italia.

Un plauso va all’editore Arcana di Roma che ha permesso a Savella di affrontare, serenamente, il giudizio del pubblico. Senza fare l’indovino posso suppore che, se il testo fosse stato pubblicato da un editore pugliese, non sarebbe bastata la prima edizione a far fronte alle richieste di saggio omaggio: anche questo, visto da occhi meno interessati, è un successo. ‘Povera patria’ ci ricorda che il successo non è un vizio, ma una curabile… malattia.

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